Se l’insegnante soccombe alla “Didattica a Distanza”

Non voglio essere allarmista, ma dopo la prima formazione ricevuta sulla piattaforma Gsuite, punto di partenza per un ulteriore passo in avanti (o indietro?) nella didattica a distanza, mi convinco sempre di più circa il rischio che sta correndo l’istruzione in Italia.

In questo articolo (Didattica a distanza: rischio alienazione) spiegavo come mai, secondo me, la didattica affidata al mezzo della macchina, senza una preventiva riflessione da parte di tutti gli insegnanti e delle istituzioni scolastiche (ma, meglio ancora, da parte del Ministero dell’Istruzione), possa condurre a una progressiva alienazione dell’insegnante, che finisce per divenire un mezzo attraverso il quale “dimostrare qualcosa” (per es. l’efficienza a tutti i costi della macchina amministrativa scolastica), perché l’insegnante viene sottoposto a uno strumento, il computer/tablet/celluare, che diviene il vero centro del processo educativo. A giudicare dal numero di letture dell’articolo, il problema è sentito.

In quest’altro articolo (Quale cura con la didattica a distanza?), invece mi interrogavo sulla possibilità di prendersi davvero cura delle persone che ci sono vicine, o che sono destinatarie della normale “cura educativa” di un insegnante, tramite la didattica a distanza, concludendo che è praticamente impossibile porre in vita una vera cura educativa, è difficile avere una preoccupazione pienamente compiuta per la crescita o le particolarità dello studente – per non dire di eventuali colleghi/ghe che rimangono indietro, per molti motivi – a motivo dello schermo: lo schermo è la vera barriera contro la quale si infrange ogni azione educativa della didattica a distanza, contro la quale si scontrano i problemi di tutti, insegnanti, studenti e loro famiglie.

In questo terzo capitolo della mia riflessione (Didattica a distanza? Chiudiamo “per inventario”), sottolineavo invece come sarebbe stato necessario, se non indispensabile, fermarsi prima di agire: una riflessione su cosa comportasse la didattica tramite il digitale e tramite “la macchina”, per lo meno in termini di educazione effettiva, di possibilità educativa e di fattibilità concreta, era necessaria, ben prima di cominciare a metterla in opera. Così avremmo potuto capire, soprattutto noi insegnanti, ma anche le famiglie degli studenti, quali fossero le possibilità e gli eventuali limiti di questo strumento. Eppure, non c’è mai stato un passo di questo tipo, cosa che trovo estremamente grave, soprattutto perché è dovere di un educatore quello di interrogarsi sulle modalità, gli scopi e le finalità con cui opera in un ambito così delicato come quello dell’istruzione. Ma tant’è, è come assistere a una corsa per dimostrare quanto “si è bravi”, che secondo me nasconde molto spesso un sottaciuto senso di inferiorità.

Nel quarto articolo (Il sostegno al tempo della Didattica a Distanza), mi sono confrontato con alcuni colleghi, insegnanti di sostegno, con cui lavoro, per scoprire che, se non altro in questo ambito, ci possono essere anche delle fievoli luci, rappresentate soprattutto dal fatto che la didattica a distanza permette all’insegnante di entrare nelle case (e nelle famiglie) dei bambini che hanno il sostegno, così da vederli agire all’interno del loro ambiente normale, e poter essere più incisivi. Ciò nonostante, si assiste comunque spesso a un’amplificazione della barriera rappresentata dallo schermo: diviene un muro che, in alcuni casi, è perfino opaco, impedisce di vedere al di là soprattutto all’alunno, e si rende necessaria una ricostruzione del rapporto tra insegnante e alunno.

Il quinto passo di questa lunga riflessione sulla didattica a distanza è rappresentato, come accennavo all’inizio, dalla piattaforma Gsuite. Non ce l’ho con la piattaforma in sé, ma con il concetto di piattaforma educativa quale contenitore che permette una serie di operazioni, più o meno libere, più o meno codificate. E a tal riguardo, mi domando quanto segue: ci si rende conto che ogni pacchetto di funzionalità digitali più o meno codificate ha una conseguenza importante e non aggirabile sulla libertà dell’insegnamento? Dove finisce la libertà dell’insegnante, quando una ditta (un’impresa, un’industria, chiamatela come volete, ma il concetto è: un intermediario che ci fornisce lo strumento) confeziona un insieme di applicazioni che, volenti o nolenti, guidano l’azione didattica dello stesso? La limitazione della libertà non riguarda, poi, solo l’insegnante, ma anche lo studente, che si trova di colpo inserito all’interno di un mondo virtuale, diminuendo ulteriormente il limite di interazione e di relazione a cui è, normalmente, sottoposto in ambito scolastico.

Ci stanno presentando la “didattica a distanza” come la soluzione in un momento di difficoltà, dove il segnale più acuto di questa difficoltà emergenziale è ciò che viene impedito. Il Coronavirus ha impedito/sta impedendo il normale svolgersi di molte azioni e attività, ha ridotto/sta riducendo i normali spazi di libertà, ma se questo accade, c’è un motivo: la sicurezza personale e sociale. Bene, ne prendiamo atto, e diciamo che è necessario. Tuttavia, sarebbe il caso di prendere atto anche di un altro fatto, cioè che non vi potrà mai essere alcuna azione a distanza che possa sostituire, né in parte né in toto, quella reale, fatta di corpi che si incontrano, di fisicità ostentata ed espressa. Nulla può sostituirsi, né oggi né in futuro, alla presenza fisica o, al limite, all’assenza totale.

Il computer può essere una risorsa per ampliare le possibilità, mai per ridurne la portata. Se l’educazione viene ridotta all’insegnamento virtuale, si va in direzione opposta a quanto l’umanità ha capito negli ultimi millenni. In questo articolo di Cacciari, c’è una riflessione in tal senso.


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