2022 – Fairy Tale

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Devo dirvelo subito, così che se volete, potete abbandonare subito questo video perché magari non ne condividete i contenuti: Fairy Tale non mi è piaciuto. O meglio, mi è piaciuto l’inizio, ma poi mi ha annoiato.

Il che è un vero peccato, perché contiene elementi che si sarebbe potuti sviluppare verso un approfondimento importante per il mondo della letteratura fantastica. E Stephen King sembrava quasi prometterlo, soprattutto nei primi capitoli. C’è un primo capitolo che è strepitoso. Di esso, subito dopo averlo letto, avevo scritto con grande entusiasmo così: “Ho letto solo il primo capitolo , ma per il momento è scritto da Dio in persona.”

La trama: Charlie Reade è un diciassettenne come tanti, discreto a scuola, ottimo nel baseball e nel football. Ma si porta dentro un peso troppo grande per la sua età. Sua madre è morta in un incidente stradale quando lui aveva sette anni e suo padre, per il dolore, ha ceduto all’alcol. Da allora, Charlie ha dovuto imparare a badare a entrambi. Un giorno, si imbatte in un vecchio – Howard Bowditch – che vive recluso con il suo cane Radar in una grande casa in cima a una collina, nota nel vicinato come «la Casa di Psycho». C’è un capanno nel cortile sul retro, sempre chiuso a chiave, da cui provengono strani rumori. Charlie soccorre Howard dopo un infortunio, conquistandosi la sua fiducia, e si prende cura di Radar, che diventa il suo migliore amico. Finché, in punto di morte, il signor Bowditch lascia a Charlie una cassetta dove ha registrato una storia incredibile, un segreto che ha tenuto nascosto tutta la vita: dentro il capanno sul retro si cela la porta d’accesso a un altro mondo. Una realtà parallela dove Bene e Male combattono una battaglia da cui dipendono le sorti del nostro stesso.

Come è normale per King, nel romanzo vi sono molti riferimenti alle favole: Giacomino e il fagiolo magico mentre Reade va in bicicletta con lo zaino e il suo carico prezioso. Ma presto, si trasforma più in L’isola del tesoro, con il minaccioso Long John Silver. E c’è un riferimento implicito al suo ciclo della Torre Nera attraverso Shakespeare del Re Lear: “Rolando il cavaliere giunse alla torre nera”. E ce n’è invece uno esplicito al Popolo dell’autunno di Bradbury. Poi prende nella biblioteca le Fiabe dei fratelli Grimm e si sofferma in modo particolare sulla versione originale di Riccioli d’oro e i tre orsi e su Tremotino

Poco alla volta, inizia a fare parallelismi tra il mondo reale e i mondi d’invenzione e ne trova alcuni interessanti: il nome del ponte sul quale è morta la madre e il nome tedesco originale di Tremotino, cioè Rumpelstilzchen, tra Tremotino e uno strano postino che era andato a far visita a uno dei protagonisti iniziali della storia. Altro riferimento è a Canto di Natale di Dickens, e poi Alice nel paese delle meraviglie. Poi, la donnina che viveva in una scarpa e Guerre Stellari con la principessa Leila. E ancora, al film di fantascienza La fuga di Logan, che però definisce una fiaba. E poi Il mago di Oz, Pollicino, Toy Story, I tre porcellini e chi più ne ha, più ne metta. Tra gli altri, c’è ovvio riferimento a I racconti di Chtulhu, di H. P. Lovecraft. 

Il romanzo stesso si intitola “Fiaba”. In questo libro, King pare voler tematizzare uno degli aspetti che hanno sempre accompagnato le sue storie. Oltretutto, c’è forse un riferimento al mondo in cui vanno gli scrittori di La storia di Lisey, Boo’ya Moon, nel riferimento al fatto che anche Bradbury deve aver visitato il mondo che Charlie Reade ha scoperto, e quindi un luogo – quello dell’immaginazione – che è visitato da molti scrittori. C’è inoltre il collegamento con i tipi bassi in impermeabile giallo della Torre Nera (quello che Charlie chiama Tremotino pare essere uno di questi). 

Un aspetto di certo interessante e ben delineato è il protagonista: Charlie Reade. All’inizio si potrebbe pensare che sia un bravo ragazzo come in molte altre occasioni King ci ha mostrato. Poi, però, è lui stesso – che racconta in prima persona – ad aprirci gli occhi sul fatto che non sia una brava persona, pur sembrando il contrario e ce lo mostra con un’azione che ci fa per qualche brevissimo momento propendere addirittura per il “Tremotino” del romanzo. Si tratta di un post-adolescente, di un ragazzo che sta rapidamente crescendo, sebbene voglia mantenere il proprio lato fanciullesco. Forse, il passaggio per il mondo di fiaba che è al centro di questa storia indica proprio la necessità di crescere, di diventare adulti, senza però dimenticare o abbandonare il proprio mondo immaginario, il proprio mondo di fiaba.

Infatti, un protagonista della storia, Woody, spiega a Charlie un aspetto interessante, che riguarda sia il mondo di fantasia sia il mondo reale, e cioè che per entrambi si tratta di storie. Sono tutte storie. Interessante – lasciatemelo dire – come collimi con ciò che spiego nella mia Filosofia mistica della conoscenza. Oltretutto, poco alla volta è il mondo di finzione a svelarsi per essere il mondo reale e, viceversa, quello da cui viene Charlie si mostra sempre più come mondo di finzione. Forse è proprio questo aspetto ad avermi fatto sperare in qualcosa di più di ciò che è in realtà questa storia.

La parte centrale del romanzo è noiosa e mi chiedo quale ne sia l’utilità. Una risposta è che dovrebbe preparare agli orrori dell’ultima parte del libro, promettendo davvero cose turche, ma lo fa in modo didascalico e come un Deus ex machina. Mi è venuto perfino il sospetto che non sia stato scritto da King: pare quasi un’imitazione del suo stile, più che il suo stile vero e proprio.

A questo punto, sono necessarie alcune riflessioni su ciò che avrebbe potuto essere questo romanzo, anche se mi rendo conto che si tratta forse della sovrapposizione delle mie aspettative alle intenzioni di Stephen King. Al di là del fatto che abbia fatto davvero una fatica enorme ad andare oltre la metà del romanzo, per una parte centrale, come già detto, farraginosa e meccanica, questo romanzo poteva essere una riflessione sulla necessità della fiaba nella vita reale. O, meglio, sulla presenza della fiaba nella vita quotidiana, nel mondo reale, primario, come avrebbe detto Tolkien. E proprio a Tolkien voglio fare riferimento.

Tra i suoi studi, infatti, ce n’è uno dedicato alle fiabe. Si tratta di una raccolta di racconti, Albero e foglia, nell’edizione italiana, che contiene all’inizio un saggio sulla fiaba, dove si dedica in modo particolare alla demolizione degli stereotipi che la caratterizzano. Proprio all’inizio del testo “Sulle fiabe”, c’è un brano che sembra quasi parlare del protagonista del romanzo di King. Leggiamolo.

Il reame della fiaba è ampio, profondo ed eminente, pieno di molte cose: vi si possono reperire animali terrestri e alati d’ogni specie; vi sono mari sconfinati e miriadi di stelle, una bellezza che incanta e pericoli sempre in agguato; e la gioia e il dolore vi sono affilati come spade. È un reame in cui un uomo può forse considerarsi fortunato per avervi vagato, ma la sua stessa ricchezza e singolarità inceppano la lingua del viaggiatore che volesse riferirne. E, mentre vi si trova, è rischioso per lui porre troppe domande, per tema che i cancelli si serrino e le chiavi vadano perdute.

J. R. R. Tolkien – Sulle fiabe, pp. 13-14.

A ben vedere, anche la sensazione di Charlie Reade che il mondo reale sia la finzione e il mondo di Empis sia il mondo reale, ritrova la sua collocazione all’interno della visione di Tolkien, che a pagina 15 del suo testo dice:

“Soprannaturale” è un aggettivo pericoloso e ambiguo in ognuna delle sue accezioni, ampie o ristrette che siano. Comunque, è difficile riferirlo alle fate, a meno che il prefisso “sopra” non sia considerato in funzione puramente accrescitiva. Infatti, è l’uomo che, a paragone delle fate, è soprannaturale (e spesso di minuscola statura), laddove esse sono naturali, assai più naturali di quanto non sia lui. Tale è il loro destino. La strada che porta al Paese delle fate non è certo la via del Cielo, e nemmeno, a mio giudizio, dell’Inferno, benché qualcuno sia persuaso che possa condurvi indirettamente, se il diavolo ci mette lo zampino.

J. R. R. Tolkien – Sulle fiabe, p. 15.

Pare proprio che, ancora una volta, King abbia voluto mettere in scena la teoria fiabesca di Tolkien. Nell’epilogo di “Sulle fiabe”, inoltre, fa riferimento a ciò che fa lo scrittore quando scrive:

Ogni scrittore che crei un mondo secondario, una fantasia, ogni subcreatore, probabilmente desidera in parte almeno essere un creatore effettivo, o almeno spera di attingere alla realtà: spera che l’essenza propria di questo mondo secondario (se non ogni suo particolare) derivi dalla realtà oppure a essa confluisca. Se riesce ad attingere a una qualità che possa essere a ragion veduta fatta coincidere con la definizione del dizionario, “intima consistenza della realtà”, è difficile capire come potrebbe accadere se, in qualche modo, l’opera non partecipasse della realtà. La caratteristica peculiare della “gioia” in un riuscito lavoro di fantasia può pertanto essere designata quale un improvviso balenare della realtà o verità sottesa. Non si tratta soltanto di “consolazione” per i mali di questo mondo, bensì di soddisfazione, di una risposta alla famosa domanda: “È vero?” La risposta che ho dato a essa poc’anzi è stata: “Se avete costruito bene il vostro piccolo mondo, sì. È vero in quel mondo”. E questo è sufficiente per l’artista (o per la parte artistica dell’artista).

J. R. R. Tolkien – Sulle fiabe, pp. 94-95.

Il saggio di Tolkien richiederebbe molte riflessioni a sé, perché è ricco di spunti ed entra a pieno diritto in uno o più approfondimenti che si possono fare circa il fantasy e il modo migliore di intenderlo, compito al quale non mi sottrarrò in un prossimo futuro, magari rielaborando quel “Manifesto fantasy” che avevo già presentato anni fa sul mio sito, in collaborazione con altri autori. Ma prima di lasciare il nostro amato autore inglese, vorrei leggervi ciò che egli dice in riferimento alla Fantasia.

La Fantasia è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla Ragione; né smussa l’appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione. Al contrario: più acuta e chiara è la ragione, e migliori fantasie produrrà. Se mai gli uomini si trovassero in condizioni tali da non voler conoscere o da non poter percepire la verità (fatti o testimonianze), allora la Fantasia languirebbe finché essi non guarissero. E, se mai arrivassero a quello stato (e non sembra del tutto impossibile), la Fantasia perirebbe e diverrebbe Morbosa Illusione. La Fantasia creativa si fonda infatti sull’ardua ammissione che le cose del mondo esistono quali appaiono sotto il sole; su un riconoscimento dei fatti, non sulla schiavitù a essi.

J. R. R. Tolkien – Sulle fiabe, p. 75.

Insomma, a ben vedere, andando un poco sotto la superficie noiosa di buona parte del romanzo di Stephen King, si intravede quale referente il pensiero tolkieniano. D’altronde, non è la prima volta che King mostra di tenere in grandissima considerazione (e come potrebbe essere altrimenti) il pensiero e l’opera di Tolkien. Il problema fondamentale rimane, perciò, la scrittura e lo sviluppo della trama e degli elementi fiabeschi: ottime, davvero ottime premesse, ma uno prosieguo che lascia a desiderare.

Forse King ha perso un’occasione per dare un’ottima dimostrazione di letteratura fiabesca nel senso più alto, o forse non ne aveva proprio l’intenzione. Dal mio punto di vista è un vero peccato. Sono, però, più che certo che da questo romanzo trarranno un film che potrebbe essere potenzialmente migliore del romanzo stesso.


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