Conosci te stesso e libera il mondo

Man looking at reflection in window

Nell’articolo precedente, relativo all’importanza di gestire le emozioni, in modo particolare paura e angoscia, segnalavo l’importanza di educare le persone fin dall’infanzia a conoscere e gestire bene le emozioni e i sentimenti, per evitare poi di reagire in modo inconsapevole a situazioni che potrebbero spingerci a fare scelte nelle quali non ci riconosciamo.

Ancora più importante, però, è imparare a conoscere noi stessi, così da poter lasciare noi e il nostro prossimo liberi di essere ciò che sono.

Per conoscere se stessi, insegnava già Platone (e, verosimilmente, Socrate), è necessario un confronto con la parte divina presente nell’altro. Nella nostra società ci siamo abituati a pensare che l’autoconoscenza e l’autocoscienza siano risolutive di ogni problema, che se “faccio da me”, faccio per tre. Ma non c’è nulla di più sbagliato.

Fermarsi a se stessi vuol dire fermarsi. Oltrepassare se stessi vuol dire tornare a sé.

Può sembrare paradossale, ma è certo esperienza comune che un sano dialogo, un vero confronto con qualcuno cui assegniamo un ruolo importante, diviene rivelativo di ciò che proviamo, di ciò che desideriamo e di quello che vogliamo per noi. Ebbene, questo accade in ogni caso, con chiunque ci si confronti. Nel caso in cui ci specchiamo in una persona che ci piace, abbiamo la sensazione di una scoperta piacevole di noi stessi, quella persona ci permette di aprire gli occhi su un lato positivo della nostra esistenza di cui non ci eravamo mai accorti, motivo per cui sembra quasi aver svelato ai nostri occhi il nostro tesoro sempre presente. Ma nel caso in cui ci specchiamo in una persona che non ci piace, fatichiamo a riconoscere che ciò che di quella persona non ci piace, non ci piace in quanto è già presente in noi, esattamente come per ciò che invece è piacevole.

La mostruosità dell’altro richiama la mostruosità nascosta in me.

Per quale motivo parlo del mostro che è in noi? Perché la reazione che solitamente abbiamo di fronte a ciò che non ci piace, è un ribrezzo intransigente, un rifiuto senza se e senza ma. Spesso, a ciò che respingiamo, non riconosciamo nemmeno il beneficio del dubbio. Eppure, non c’è alcun lavoro più meritorio dell’andare alla scoperta di quanto l’altro sia presente in me.

Come diceva Levinas, il volto dell’altro mi interpella, e mi chiama alla responsabilità proprio perché mi invita non solo a prendersi cura di lui, ma perché innanzitutto sollecita il riconoscimento di ciò che siamo nella differenza: e per prenderci cura dell’altro, non possiamo che prenderci cura innanzitutto di noi.

Eccola, perciò, la cura del sé: la prima fase, importantissima, consiste proprio nel riconoscere ciò che non ci piace. Perché quello che è piacevole, è costantemente di fronte al nostro sguardo attento, mentre ciò che per qualunque motivo ci appare mostruoso, lo allontaniamo, nascondendolo in un angolo riposto del nostro animo, della nostra esistenza, pronto però a venire fuori nel momento meno opportuno. Perché fa parte di noi: Mister Hyde, come direbbe Stevenson, finisce per prendere il sopravvento se Dottor Jekyll non si obbliga a trovare un compromesso.

Fino a quando non saremo riusciti a trovare un punto d’incontro tra gli aspetti più piacevoli e quelli meno piacevoli della nostra esistenza, non saremo mai in grado di reagire in modo opportuno alle emozioni nelle quali il mondo (ma anche noi stessi) ci immergerà.

Per poter aiutare il mondo, dobbiamo innanzitutto trovare il modo di aiutare noi stessi a prenderci cura di noi. E non possiamo mai farlo senza il confronto con la divinità che c’è in chi ci sta di fronte. Una divinità che spesso ci spaventa e atterrisce, ma pur sempre divinità.


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