21 – Paura

La paura, ci spiegano gli psicologi, serve ad attivare l’autodifesa e a spingerci nella ricerca di una soluzione a un problema. Questo può, forse spiegare come mai, in quest’emergenza di coronavirus, la gente abbia, dove possibile, deciso di chiudersi in casa.

È però importante ragionare su cosa sia la paura e sul modo in cui sia possibile gestirla, così da non rimanere intrappolati nel guscio vuoto che essa tende a creare nelle persone e nella società. Ci spinge all’autodifesa, all’autoprotezione, dicevamo, il che avviene quando sentiamo incombere una minaccia. La minaccia può essere fisica o immateriale: il fuoco che si dirige verso di me mi spinge in modo istintivo ad allontanarmi, e la paura di bruciarmi è lo stimolo che permette l’attivarsi di questa autoprotezione. Se la minaccia è immateriale, come nel caso del coronavirus, che sta spingendo la nostra società verso una paura “globale” – e immateriale non perché non esista un agente fisico, in questo caso il virus, ma perché lo stimolo ci viene dal messaggio che riceviamo dagli organi di informazione, siano essi politici, scientifici o giornalistici, quando non perfino “social” -, allora lo stimolo che ci spinge a cercare un’autoprotezione diventa faccenda assai più complicata.

Nel caso di un pericolo invisibile, infatti, dove trovare lo stimolo che ci spinga a porci al riparo? Dev’esserci fornito: da qui i video (ovviamente “informativi”, oltre che minacciosi) dei terroristi che uccidono la gente nel caso in cui il pericolo sia il terrorismo; da qui le informazioni sui pericolosi clandestini che si aggirano per le strade delle nostre città (ammesso che vi siano effettivamente, nel qual caso vanno creati con un decreto ad hoc, che magari chiuda gli unici centri in cui i “clandestini” potevano essere tenuti sotto controllo) nel caso in cui il pericolo sia l’immigrazione; da qui i video di persone che crollano per strada all’improvviso o di gente che viene portata via in modo forzoso dalle proprie case o le immagini delle strade vuote nelle metropoli cinesi nel caso in cui il pericolo sia il virus che non si vede.

Credo che questo aspetto sia molto importante: l’invisibilità di un pericolo può essere maneggiata per scopi secondi. Solitamente, per gestire il potere. La tecnologia digitale è oggi lo straordinario braccio destro di questa possibilità.

Attenzione, non sto dicendo che in Italia o nel mondo non vi sia un pericolo coronavirus: nella mia pagina Facebook sono intervenuto più di una volta per segnalare la stupidità di sottovalutare la diffusione del covid-19, soprattutto per il possibile collasso del nostro eccezionale sistema medico-sanitario e per i risvolti economici (che tuttavia sono parzialmente inevitabili, sia che si prendano decisioni politiche di un tipo piuttosto che di un altro). Il pericolo determinato da questo virus è concreto ed è necessario fidarsi dei dati e degli avvertimenti degli scienziati. È tuttavia necessario capire: capire sia l’effettiva pericolosità del virus e delle sue conseguenze, cosa che non ci è possibile fino in fondo poiché il virus è parzialmente sconosciuto, ma anche capire quali sono i risvolti resi possibili dalla paura provocata dal virus.

La paura, dicevamo, attiva un’autoprotezione. Questa è sia a livello personale che a livello sociale. Difendendo noi stessi, a livello personale, nel caso del coronavirus si difende anche la società. Non può sfuggire, però, come nel caso di un pericolo invisibile, cambino i rapporti di potere a livello sociale. Fateci caso: un governo che era (ed è) a rischio stabilità, ha l’occasione di rinforzarsi per far fronte comune dinnanzi al pericolo. Per farlo, però, si decide di incidere in modo significativo sulle libertà personali, a partire da quella relativa al comportamento relazionale: è necessario stare a distanza “droplet” (1,87 m., dicono), è meglio evitare il contatto fisico (stringersi la mano, baciarsi), è meglio non ritrovarsi in gruppo. Sono misure giuste e sensate, razionali, perché il virus si diffonde in modo parassitario, approfittando delle modalità normali di relazione; eppure non può sfuggire come le norme di normale e responsabile convivenza in tempo di virus diffuso siano divenute “decreto” dello Stato, e come lo stesso Conte sia sceso in campo in maniera pienamente ufficiale – vedi il video del 4 marzo sera – per affermare questa necessità.

Sottotraccia del suo intervento: siate responsabili, rinunciate a parte della vostra libertà.

In altri Paesi, giusto per dirlo, al momento si sono comportati diversamente. Attenzione, non ne sto facendo una questione di cosa giusta o sbagliata in riferimento al virus e alla sua pericolosità e all’opportunità che l’Italia facesse così, ma sottolineo un approccio generale alle cose: la modalità italiana non è simile a quella degli altri Paesi occidentali, più o meno votati a una libertà da difendere, più o meno democratici, ma a quella utilizzata dalla Cina, una dittatura. Questo mi colpisce molto.

La paura è un’emozione che va riconosciuta, ammessa e gestita. Ciascuno dovrebbe imparare a farlo in modo personale, così da essere pienamente responsabile verso se stesso e verso gli altri. Il panico che si è creato dopo i primi giorni di contagio nel Nord Italia, panico indotto dal modo di comunicare la diffusione del virus, ha svelato questo aspetto della personalità occidentale, secondo me cruciale: la progressiva incapacità nello riconoscere e gestire le proprie emozioni. E quello che succede adesso con il coronavirus non è diverso da ciò che succedeva fino a qualche mese fa con l’argomento immigrazione e il consenso a chi soffia sulla paura dello straniero, o da ciò che succede di tanto in tanto con l’argomento fascismo e il consenso a chi dice di essere antifascista (siano le sinistre o le sardine non mi importa, il meccanismo è sempre lo stesso).

Riusciremo a imparare a riconoscere la paura, ad ammetterla e a gestirla in maniera responsabile e adulta, senza che debba imporcelo il Governo? Credo si tratti di una questione di libertà, in un senso molto più profondo che quello strettamente giuridico.


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