Sul facile e il difficile nella letteratura

Vorrei approfondire un aspetto che riguarda non solo la letteratura, ma che ultimamente sta facendo ben discutere, grazie alle osservazioni mosse da vari critici all’ultimo romanzo di Walter Siti, Bruciare tutto. Lo sto leggendo, sono a tre quarti, è una lettura “felice”, non nel senso che il romanzo sia felice o parli di un bell’argomento. Tutt’altro. Nel senso, piuttosto, che si tratta di uno di quei romanzi che davvero leggi tutto d’un fiato. L’argomento è scabroso, ma come quello di molti altri romanzi. Molte critiche moralistiche hanno fatto confusione tra l’autore e il protagonista. Inoltre, abbiamo a che fare con letteratura. Sarà ricordato nella storia della letteratura? Non lo so, solo il tempo potrà dirlo, ma si tratta comunque di letteratura. Vorrei, dunque, approfondire due concetti che mi sono sempre stati molto cari, ma che di recente hanno provocato una grande discussione grazie a scrittori e/o critici quali Giulio Mozzi e Gilda Policastro.

Prendiamola alla larga. Ieri sera, in una trasmissione su Rai Tre sono stati presentati due cantanti. A detta del presentatore, che sfodera sempre superlativi assoluti, distribuendoli più che altro come noccioline agli elefanti di uno zoo, il primo era un artista, il secondo era una “grande” artista. A voler essere generosi, il primo era – a giudicare dal risultato – l’autore di una nenia clamorosa vestito con una giacca stravagante; la seconda, invece, certo più brava, sarebbe stata giudicata in maniera adeguata definendola semplicemente: una cantante. E nemmeno delle più dotate, dico io. Ma, sapete, facendo un omaggio alla grande (per ben altri meriti) Makeba, lei è apparsa al bravo presentatore più “grande” del primo forse per proprietà transitiva della povera omaggiata.

Ciò che qui è in discussione non è la bravura (per me del tutto assente) dei due cantanti, ma la qualifica di artista. Subito dopo i due cantanti, è stato intervistato il grande fotografo (stavolta l’aggettivo è mio) David LaChapelle: con lui tutto ha assunto la sua giusta connotazione. I due cantanti sono stati presto dimenticati, ora c’era davvero un artista. Di quelli veri, uno per cui la parola artista non soffre di un’esagerazione funzionale che ne svuota totalmente il contenuto. Le fotografie di LaChapelle non sono facili. Inoltre, spesso sono complesse. Se un’immagine è difficile ed è anche complessa, non è detto sia pure bella. D’altronde, se un’immagine è bella non vuol dire che sia anche artistica. Ma quelle di LaChapelle sono artistiche, anche se – talvolta – brutte.

L’artisticità sta, in questo caso, nell’offrire una lettura differente (possibile) di ciò che l’immagine mostra: e perché questo accada, è necessaria una certa complessità di riferimenti che potrebbe, tra le altre cose, determinare una certa difficoltà di lettura e interpretazione.

1263225629780_leonardo_da_vinci_010_san_gQuesto vuol dire, secondo me, che un’opera artistica deve contemplare una difficoltà di interpretazione (non per forza di lettura), dovuta alla complessità dei suoi rimandi, espliciti o impliciti. Prendete il San Giovanni Battista di Leonardo: la sua artisticità non risiede solo nel concetto necessario alla sua esecuzione tecnica e figurativa (che già è un aspetto di difficoltà non indifferente), ma nelle possibilità di interpretazione dell’immagine. Eppure, il risultato visivo è di una semplicità strabiliante. Allora, la semplicità di quest’immagine è il risultato di una complessità di concetto e di riflessione del progetto che permette di cogliere uno dei motivi per i quali Leonardo è da considerare un artista.

Artista è parola ormai abusata, è talmente svuotata del suo contenuto, che equivale a dire artigiano. I due cantanti di ieri sera possono piacere, ma non erano niente più che artigiani, e anche dei più scarsi. Quante volte abbiamo sentito un impiegato di banca (non ho nulla contro gli impiegati di banca, io ero impiegato di banca, prima di liberarmi; è solo per fare un esempio) definirsi – o essere definito da altri – artista per il solo fatto di aver preso in mano un pennello e composto un’opera che lui dice “astratta”?

Quante volte abbiamo sentito parlare sedicenti scrittori (scrittori, per inteso, solo perché hanno preso una penna in mano, scritto un centinaio di pagine e, stampatele con un sedicente editore, se non un self, le hanno presentate al pubblico)? E, secondo voi, lo erano?

Non voglio ergermi a giudice di nessuno, ma è pur necessario stabilire cosa distingue uno scrittore da uno scribacchino, un pittore da un impiastratore.

La difficoltà di esecuzione, signori, e la complessità di riferimenti. Che, talvolta, possono determinare una difficoltà di lettura e interpretazione in chi è sprovvisto dei codici per accedere alla sua comprensione.


7 risposte a "Sul facile e il difficile nella letteratura"

  1. Chiede se secondo noi le persone da lei descritte fossero o meno veri artisti. E pensa seriamente che un artista si possa giudicare dalle cose che lei ha descritto? Fosse così, confermerebbe che il giudizio di un’opera è sin troppo spesso compromesso da molti, troppi pregiudizi. Avesse mostrato l’oggetto in questione (libro, canzone, quadro) avremmo forse avuto modo di dire qualcosa in merito all’opera. Ma così mi pare difficile. Per quanto mi riguarda il banchiere – a insaputa di altri – potrebbe avere nutrito per anni la passione per la pittura ed essersi esercitato in modo del tutto autodidatta, seguendo ad esempio un suo percorso di ricerca e magari ispirandosi a certi maestri e magari ancora, perché no, potrebbe anche possedere un talento di suo, mai espresso per vergogna o per mancanza di occasioni, e forse potrebbe persino avere qualcosa “da dire”, e alla fine uscirsene allo scoperto con un’opera o due senza spiegare tutta la sua storia: il fatto che sia un banchiere (o quello che vuole lei) non determina per forza un’incapacità artistica. Secondo me. Così come uno che esce dall’Accademia delle arti non è necessariamente un buon artista. Secondo me.
    Peraltro delle foto di LaChalelle – che amo – non ne ricordo una brutta, forse però non le ho viste tutte. O forse anche sul sul significato di bello e di brutto bisognerebbe mettersi d’accordo.
    🙂
    Sempre interessante comunque seguire questa discussione super allargata.

    1. No, in realtà non lo chiedo: la mia era una domanda retorica, con implicito (pre)giudizio mio, che non è rilevante. Come non lo è sul pensiero circa la bruttezza di alcune immagini di LaChapelle. Inoltre, non ho assolutamente voluto dire che un bancario non possa riservare sorprese: era un’affermazione per assurdo. La riflessione verte sul facile e il difficile. La categoria di bello e brutto è molto soggettiva, anche se ci si può rifare a canoni prestabiliti; quella di facile/difficile lo è solo in riferimento a un livello culturale minimo (che deve ovviamente comprendere a sua volta punti di riferimento minimamente condivisi), ma nella cultura in cui siamo immersi – quella italiana, di oggi – è piuttosto istintivo comprendere la cornice nella quale è inserito il quadro di cui facciamo parte. La fuga dalla difficoltà, la ricerca della facilità, la confusione tra facilità e arte. E questa che ho appena detta non è una catena logica, sia ben chiaro, ed è solo lontanamente consequenziale. Ma indica, mi pare, la direzione del senso medio italiano.
      Ma forse mi sbaglio, ed è così per tutti. Oppure, mi sbaglio in modo ancora diverso, e la realtà nella quale viviamo tende alla complicazione e alla ricerca della profondità tramite la complessità.
      Grazie per l’intervento.

  2. Allora con una pagina come questa che ho trovato in internet (Bruciare tutto) Siti sarebbe uno scribacchino:

    “Sedicenti analisti politici si danno sulla voce, rovistano nella schiuma cercando lo scandaletto, lo scooppino di una dichiarazione imprudente; altri esagerano con le tinte fosche per fare audience, a sentirli pare che le periferie di Milano o Torino siano come quelle di Nairobi; se dài il microfono a dieci senzatetto, per effetto dell’amplificazione narrativa sembra che mezza Italia abbia il problema della casa. File alla fontanella perché nello stabile occupato il Comune ha tagliato l’acqua, geremiadi come se non aver l’acqua in casa fosse un flagello biblico. Quel che conta, per tutti i convenuti, è fare bella figura: i conduttori affrontano serafici le previsioni più crude (“un paese in macerie!”) ma si scaldano davvero solo se qualcuno avanza una critica alla loro trasmissione. Si difendono accusando “ve la prendete col termometro invece che con la febbre”, ma fingono di non capire che è proprio il termometro truccato a creare la percezione della febbre. Prete non t’allargare. Ma l’informazione è veramente il nuovo Attila, dove passa lei non cresce più niente di rispettabile. Meglio fare come l’Adua: sciropparsi i commissari infallibili, i criminali perfidi e fascinosi, i don Matteo con gli occhi azzurri, o una nana che si illude d’essere un angelo custode.”

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