A scuola ne parliamo continuamente: si tende all’inclusione di chi si trova in condizione disagiata o sfortunata rispetto alla media delle persone. È un asse portante della didattica e una precondizione di giustizia per la società. A quanto pare, non per tutti.
Permettetemi un breve ragionamento sul concetto di inclusione, che mi pare una delle più belle nozioni del pensiero umano… che però va in continuazione approfondita, rimpolpata, resa carne viva, resa vita vera, resa realtà sempre più concreta. L’inclusione è uno di quei principi che dicono e rappresentano in modo diretto la possibilità di unificazione, la possibilità di relazione vera e vissuta, esistenziale, che agisce in profondità e trasforma la società, frutto delle relazioni tra persone che, a forza di esclusione, rischiano di rimanere individui.
Ecco, l’inclusione è ciò che permette l’esistenza della società, e non l’esclusione. Di esclusione in esclusione, si arriva all’individuo e all’isolamento. Di inclusione in inclusione si arriva, invece, a Dio, che tutto include massimamente perché è egli stesso inclusione. Dunque, ecco due o tre pensieri.
Se siamo intimamente convinti che la vita debba essere inclusiva (e personalmente credo che una vita orientata al divino debba essere inclusiva), ma di fronte ci troviamo un’organizzazione che esclude (sia essa sacra o laica non fa differenza, perché ogni organizzazione umana è sempre, per l’appunto, umana, seppur in riferimento a qualcosa di più alto), c’è da considerare seriamente la possibilità che si possa fare a meno di quell’organizzazione. Se invece pensiamo che di un’organizzazione esclusiva (e perciò escludente) non si possa fare a meno perché rappresenta qualcosa di sacro – anche se magari espresso in forma laica -, allora dovremmo ammettere a noi stessi che di “esclusività” è composto il nostro impasto, fin nell’anima che ci identifica.
La relazione è per definizione un rapportarmi a una possibile unificazione, motivo per cui essa è sempre espressione del divino che unifica. Se la relazione viene considerata in qualche modo “guasta”, cioè che non può funzionare (beninteso, ai fini della procreazione, come ritiene un certo pensiero tutto spostato in ambito animale più che umano), ci si dovrebbe interrogare sul gradiente di “guastità” insito nel divino stesso.
Vogliamo pensare a un Dio perfetto? Allora non c’è posto per un “umano” imperfetto. Possiamo pensare a un Dio umano? Allora c’è posto anche per un umano perfettibile. Inclusione, appunto, non esclusione.