Liturgia /2 – il senso dell’azione

Nel precedente post, suggerivo un primo problema relativo al vissuto della liturgia da parte di ogni cristiano (e, se per questo, di ogni fedele di ogni religione): la liturgia corre il rischio di cristallizzare la spiritualità in un codice nel quale non ci riconosciamo più.

Il secondo problema che vorrei mettere in evidenza è relativo all’azione, concetto intrinseco alla liturgia. Se ricordate, liturgia deriva dalle parole che in greco significano “azione del popolo”, e cioè tutta quella serie di atti e parole comunitarie che pongono il fedele di fronte a Dio. In questa azione collettiva, il singolo fedele non è più singolo, ma è parte di un corpo. L’azione del fedele di fronte a Dio all’interno di un’azione liturgica non è mai qualcosa da considerare in senso oggettivo. Mi spiego meglio, tramite un paio di esempi.

Il fedele che entra in chiesa prima della messa si fa un segno di croce. Che senso ha tale segno? Normalmente, rischia di essere un gesto privo di significato attribuito: il singolo fedele non si interroga sul perché di una ‘abitudine’. Il senso del gesto cruciforme, però, è riscontrare su di sé un qualcosa che è “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Si entra in chiesa, perciò, e si indica a se stessi che lo si fa nel nome della Trinità. E cosa vuol dire farlo nel nome della Trinità se non dichiarare di appartenere al suo circolo ontologico? Faccio qualcosa nel nome di qualcuno solo nel momento in cui questo qualcuno mi ha investito della possibilità di agire in suo nome. Segnarmi nel nome della Trinità al mio ingresso in chiesa, di conseguenza, vuol dire che sono in chiesa perché la Trinità stessa mi ha investito della possibilità di agire in Suo nome, entrando nel luogo in cui – teoricamente – sono chiamato a mettermi in dialogo con la Trinità stessa con un’azione comunitaria esplicita: quella della comunità ecclesiale che si riconosce nella memoria della Risurrezione di Cristo, il giorno di Domenica (giorno del Dominus, il Signore).

Quanti di noi, però, entrando in chiesa e segnandosi, riconoscono con chiarezza un tale senso? Ma c’è di più: il gesto, l’atto, è anche segno di un’energia che è stata comunicata, di un èrgon che giunge dal Divino e si comunica al fedele, che tramite il gesto riconosce tale passaggio. Attenzione, non ne sto parlando in un senso magico. Non c’è alcuna forza magica che viene trasmessa tramite l’atto liturgico, ma tramite l’atto liturgico si riconosce di appartenere a una forza comune, che è quella che giunge dal Divino e che al Divino ci unisce. La questione è saperlo. La questione è riconoscerlo. La questione è accettarlo.

Con l’atto liturgico, partecipiamo a qualcosa cui siamo stati invitati e che richiede la nostra piena comunicazione.

Ciò che accade per lo più, invece, è l’esatto contrario: il gesto liturgico viene vissuto come l’adempimento di un dovere, per lo più dal significato incerto se non del tutto sconosciuto, e che, in molti casi, acquisisce lo spessore misterico di un’azione magica, anziché lo spessore mistico di un’azione unificante. Spesso e volentieri, tramite la preghiera il fedele chiede e cerca di piegare Dio al Sé. Accade, per esempio, nella comunione o subito dopo: quante volte non si comprende che una volta che abbiamo mangiato del Suo corpo, non abbiamo più bisogno di inginocchiarci? Di fronte a chi ci inginocchieremmo, dal momento che noi siamo Dio grazie alla comunione stessa? Inginocchiarsi, in questo caso, vuol dire solo una cosa: continuare a pensare che Dio sia fuori di noi, che sia ‘oggettivato’ in una presenza che è, invece, non dentro di noi, ma che ‘è noi’. L’unica cosa giusta da fare dopo la comunione è il silenzio. Spesso, invece, oltre che inginocchiarsi, si riempie questo momento di possibile silenzio con parole che, ancora una volta, invocano, implorano, chiedono: in breve, che cercano di piegare Dio alla nostra volontà.

Un atto liturgico tanto importante, e che richiede la nostra totale comunicazione, meglio ancora, che ci permette di essere pienamente in comunicazione, viene vissuto come un gesto di oggettivazione di due soggetti che stanno l’uno di fronte all’altro. Ma due soggetti che stanno l’uno di fronte all’altro corrono sempre il rischio di essere un soggetto di fronte a un oggetto, e per questa strada, Dio diventa ‘il dio’, né più né meno che idolatria. Meister Eckhart chiedeva a Dio che lo liberasse da una simile idea di Dio.

Eppure, niente di strano che ciò accada. Una simile oggettivazione di Dio in un ‘dio’ che possiamo pregare o, soprattutto, piegare è il frutto diretto di una codificazione della spiritualità: se posso accedere a una certa spiritualità grazie a determinati codici di comportamento (in questo caso, quelli previsti dalla liturgia), allora posso anche pensare che sia grazie a tale codificazione che Dio, eventualmente, fa qualcosa per me, magari ciò che gli chiedo quando lo prego dopo aver fatto la comunione. Quale momento più… magico di quello?

Ho parlato il linguaggio della provocazione, lo so, ma credo sia utile per portare alla luce un nodo per me fondamentale della liturgia: la partecipazione con tutto me stesso alla “azione del popolo”. Fino a che punto me lo permetto? E fino a che punto me lo permette una liturgia pensata secondo una codificazione più o meno spinta (e poco sentita)?

Nel prossimo post proverò ad analizzare questo aspetto partecipativo pensando in modo particolare alla musica.


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