Tutto ciò che riguarda il mito in un racconto, a differenza del simbolo e dell’archetipo, ha a che fare con l’impostazione di fondo della narrazione. Vediamo in che modo.
Mito. 1. Nelle religioni, narrazione sacra di avvenimenti cosmogonici, di imprese di fondazione culturale e di gesta e origini di dèi e di eroi. 2. Esposizione di un’idea, di un insegnamento astratto sotto una forma allegorica o poetica. 3. Immagine schematica o semplificata, spesso illusoria, di un evento, di un fenomeno sociale, di un personaggio, quale si forma o viene recepita presso un gruppo umano, svolgendo un ruolo determinante nel comportamento pratico e ideologico di questo. | Credenza che, per il vigore con cui si estrinseca e l’adesione che suscita, provoca mutamenti nel comportamento di un gruppo umano, spinto da essa all’azione verso obiettivi imprecisati e futuri. 4. Speranza utopistica, costruzione dell’intelletto priva di fondamento.
In questo caso mi preme sottolineare come vi sia nei vari significati di tale parola un elemento temporale variabile, che si muove dal passato, attraverso il presente, verso il futuro. Se nell’accezione 1 il mito ha infatti a che fare con il passato in cui viene fondato qualcosa, nell’accezione 3 assume un rilievo soprattutto nell’ambito del presente (una manifestazione tutta particolare e attuale di questa accezione è all’interno della cosiddetta cultura pop1) e del futuro, in modo speciale con il peculiare fenomeno del progresso della scienza innervato nelle società democratiche occidentali, divenuto “mito del progresso” tout court, e ormai entrato in crisi d’idealità nella cosiddetta società post-moderna in cui viviamo2.
A questo punto, non è difficile comprendere in che modo il concetto di mito si colleghi a quello di archetipo, che si rivela essere il materiale costitutivo del mito tramite un processo di rielaborazione storica. Ne costituisce il punto di partenza, ma anche il filo rosso che, attraverso tutte le rielaborazioni stratificatesi nella cultura, giunge dalle civiltà antiche fino a noi. La direttiva temporale dal passato, attraverso il presente, verso il futuro, già vista nella definizione dello Zingarelli, si fa qui più evidente. È grazie all’archetipo presente in essi, se i miti, così come le favole e le fiabe, sono in grado di dire qualcosa al civilizzato cittadino del XXI secolo, perfino dopo il grande disincanto. L’archetipo muove dall’anima e l’anima sensibile, attenta, non può far altro che vibrare nel momento in cui se ne sente toccata. Può darsi che l’uomo contemporaneo non sia più abituato a riconoscere l’archetipo in sé, ma capisce subito quando una narrazione lo tocca da vicino.
Trovo che la più interessante descrizione del mito l’abbia data l’antropologo Angelo Brelich, quando precisa che parlare di mito non significa parlare di allegoria, di un ricordo deformato oppure di libera fantasia o di un tentativo pre-scientifico di spiegare la realtà. La sua caratteristica principale risiede nell’avere similarità con il rito, a partire dal momento opportuno in cui raccontarlo. Il mito non è per qualunque occasione e non è utilizzato da chiunque, ma è solo per momenti rituali e richiede esperienza. Il mito, infatti, racconta avvenimenti posti al di fuori della linea ordinaria del tempo e ciò che accade nel tempo vi si riferisce come a un momento fondativo della realtà3.
Avete visto quanta consapevolezza è necessaria quando si utilizzano fattispecie così diffuse come il simbolo, l’archetipo e il mito?
1 La componente ‘mito’ in un elemento-espressione della cultura diffusa lo rende fruibile e desiderabile da un’amplissima fetta della società. Un altro Vocabolario, il Treccani.it, dà del pop questa prima definizione: «Detto di produzioni e manifestazioni artistico-culturali di vario tipo che hanno avuto una diffusione di massa a partire dagli anni ’60 del Novecento», mentre del mito: «Idealizzazione di un evento o personaggio storico che assume, nella coscienza dei posteri o anche dei contemporanei, carattere e proporzione quasi leggendarî, esercitando un forte potere di attrazione sulla fantasia e sul sentimento di un popolo o di un’età», ponendo in evidente connessione le due parole.
2 In Il disagio della postmodernità, Milano: Bruno Mondadori Editore 2002, p. 184, Zygmund BAUMAN sostiene che la «nostra società “tardomoderna” (Giddens), “riflessivo-moderna” (Beck), “surmoderna” (Balandier) o – come preferisco chiamarla io – postmoderna, è contrassegnata dal discredito, dall’aperta ridicolizzazione o dallo sprezzante ma tacito abbandono di molte ambizioni (oggi condannate come utopistiche o accusate di protototalitarismo) caratteristiche dell’età moderna. Tra questi moderni sogni perduti o abbandonati si trova anche il progetto di eliminare le diseguaglianze sociali e di assicurare a ogni essere umano uguali opportunità di accesso a tutti i beni offerti dall’umanità».
3 Cf Angelo BRELICH, Mitologia, politeismo, magia e altri studi di storia delle religioni (1956-1977), Napoli: Liguori 2002, pos. Kindle 1106.
2 risposte a "Il mito, visione della narrazione"