Il fiabesco – sviluppo storico

Il codice fiabesco – Prima cosa da fare è distinguere le fiabe dalle favole. Le favole sono “racconti di animali”, con senso sentenzioso e moraleggiante, mentre le fiabe sono “racconti di persone in situazioni fatate”. Poi, le origini della fiaba. Sono tutte italiane. 

Boccaccio, Genealogie: viene evocata una scena di narrazione popolare, quotidiana, ripetuta innumerevoli volte nelle notti invernali e che sarebbe divenuta un topos quasi obbligato: la vecchietta, il focolare, il cerchio degli ascoltatori e gli orchi, le fate, le streghe che la voce di lei viene suscitando. Dietro le quinte si intravede o si indovina un mondo in penombra, un enorme serbatoio brulicante di motivi, di temi, di trame che sono passate di bocca in bocca e che sono rimaste allo stato fluido senza che nessuno si fermasse a raccoglierle e a fissarne la traccia. Accanto a questa scena, a questo luogo elementare di narrazione, Boccaccio ha edificato ripetutamente, prima nell’Ameto e nel Filocolo, e poi nel Decameron, una raffinata e sofisticata e minuziosa coreografia pastorale o cortese entro cui si raccontano e si ascoltano, nell’ambito di una significativa finzione di oralità, non fiabe, ma “esempi”, ma novelle, ma racconti – ricordiamocelo – «di cose che possono essere accadute e che non hanno in sé niente che offenda irreparabilmente la verosimiglianza».

La novità successiva di Straparola sta nell’aver unificato il contenuto fiabesco e meraviglioso con la verosimiglianza, all’interno di un codice narrativo. Ma è Basile a creare il perfetto codice fiabesco, all’interno del quale è soltanto la narrazione della fiaba ad avere diritto di cittadinanza, e l’argomento fiabesco esaurisce tutta la realtà. Tutto è fiaba, non ci sono altri registri e non esiste che quel mondo, l’altro mondo!

Il racconto fiabesco, rigenerandosi di continuo, in forza della sua estrema duttilità e della sua inesauribile energia comunicativa, è divenuto veicolo di molteplici e differenti significati. Per questo, ha suscitato l’interesse di studiosi delle più diverse discipline, che hanno valorizzato la sua complessa identità. Considerato documento etnologico da demologi, antropologi ed esperti di folclore, il racconto fiabesco, consacrato ormai come “opera d’arte”, detiene la nobiltà “di protoforma dell’arte narrativa umana”, come afferma la studiosa Giovanna Cerina nel saggio “Cinque saggi nel fiabesco”.

In un passaggio continuo dal dominio dell’oralità a quello della scrittura e viceversa, la fiaba ha affinato la sua forma e il suo stile, elaborando così un proprio codice grazie al quale ha ottenuto, a pieno titolo, il diritto di cittadinanza nel sistema letterario. Il codice fiabesco è il risultato di un processo di adattamenti continui entro i circuiti della cultura orale e della cultura scritta. La fiaba, come dice Edoardo Sanguineti nel 1979, “è cosa da ascoltare, in cui gesto e intonazione, mimica e pause, tengono un ruolo capitale. Ancora un passo e diremo tranquillamente che la fiaba è un genere teatrale, che postula un recitante e un pubblico, anche ridotto a un ascoltatore solitario” (pensate alla tradizione del Falò o al racconto della mamma al bambino). Carlo Gozzi è un grande esponente della fiaba italiana trasmessa al teatro.

Per addentrarci nel labirintico mondo fiabesco, ci serviremo delle teorie strutturaliste formulate da Vladimir Ja. Propp ne “La Morfologia della fiaba”. Grazie agli orientamenti forniti da Propp e da Luthi, le cui opere sono divenuti dei classici non solo per gli studiosi di fiabistica, possiamo così distinguere le fiabe in due categorie generali: la fiaba orale, popolare e la fiaba scritta, colta. E’ possibile così individuare i due caratteri del codice fiabesco, prendendo come testi campione “Le piacevoli notti” di Straparola e “Il Pentamerone” di Basile.

La fiaba scritta attinge largamente al patrimonio orale di varie zone geografiche, culturali e linguistiche, così come la fiaba orale riassorbe e ricicla temi, motivi stilemi che provengono da testi della letteratura scritta .

Il genere fiabesco. Prima del XVIII non abbiamo designazioni stabili dei generi narrativi. Si parla di Erzahlunghen, di folktales, di contes, cuentos, racconti e con ciò viene indicato tutto quello che più tardi sarà chiamato fiaba, leggenda o storiella.

Solo alla fine del XVII e all’inizio del XVIII secolo, La mode des fees e attraverso allettamenti artificiosi di questo genere nel XIX secolo, la fiaba ha acquisito una certa preponderanza”. Il XVIII secolo è interessato ad individuare le differenze sostanziali tra ragione e superstizione, il XIX secolo, invece, si appropria del ricco patrimonio letterario medioevale. Nel vasto panorama della narrativa popolare, si deve ad Achim von Arnim e a Clemens Brentano la definizione e la scoperta di nuovi generi poetici. “La fiaba quale essa si è venuta cristallizzando a partire dal 1812 in un lento processo storico, è un prodotto della necessità filologica e della possibilità poetica; essa  colma le aspettative politiche di un vasto pubblico letterario”.

Andrè Jolles annovera la fiaba tra “le forme semplici”, insieme alla leggenda sacra e profana, al mito, all’enigma, alla sentenza. Si tratta di forme prive della determinatezza e della perfezione che caratterizzano le forme artistiche. Nel saggio “Forme Semplici”, Jolles individua nella mobilità (che caratterizza linguaggio, personaggi e situazioni), nelle coordinate spazio- temporali, nella genericità, ed infine ne “la facoltà di ricorrere di volta in volta”, le caratteristiche fondamentali della fiaba. E` possibile, dunque, raccontare una fiaba con parole proprie. Ciò è dovuto al fatto che ogni singola attualizzazione della fiaba non ne realizza totalmente la forma semplice, ma rappresenta una sua concretizzazione parziale. 

Nel delineare le caratteristiche formali della fiaba popolare occorre, secondo Jolles, tener ben presente la distinzione tra forma semplice e forma artistica. Sebbene le versioni scritte delle fiabe della tradizione orale, se trascritte con scrupolo filologico, come, ad esempio, le fiabe grimmiane, mantengano una buona parte delle caratteristiche formali della fiabe popolari, l’impronta dello scrittore rimane comunque percepibile.

Per quanto riguarda la fiaba scritta, Dacia Maraini afferma in un suo saggio sull’argomento:“La scrittura mima l’oralità, come la danza mima i movimenti naturali del corpo, che sia umano o animale. La rappresentazione scritta della lingua orale è comunque una forma di artificio. Si tratta di valutare il grado degli artifici”.

Breve itinerario storico. La fiaba ebbe in Oriente uno sviluppo grandioso (Pancatantra; Mille e una notte). Non fu presente presso i Greci e i Romani, che invece svilupparono la favola; in Occidente visse grazie alla tradizione orale e popolare e divenne solo tardivamente pretesto per composizioni artistiche raffinate. I protonarratori sono con ogni probabilità due gruppi di personaggi ben distinti: i viaggiatori e i contadini.

Le fiabe vennero raccolte dalla viva voce dei narratori popolari e trascritte a partire dal Seicento. I primi furono Giovanni Francesco Straparola (1480-1557), con le 75 fiabe de Le piacevoli notti (contenente anche la prima versione de Il Gatto con gli stivali) e Giambattista Basile (1566-1632), il quale, con la bellissima raccolta di cinquanta fiabe in dialetto napoletano, intitolata Lo cunto de li de li cunti (o Pentamerone), getta le basi dello sviluppo fiabesco europeo. La strada italiana è fatta soprattutto di dialetti e nei dialetti si iscrive il sentiero tortuoso della fiaba. 

Alla corte di re Luigi XIV di Francia, Charles Perrault (1628-1703) rielaborò le storie popolari di Basile, basandosi anche sull’osservazione della vita di corte, nei celebri Racconti di Mamma Oca,una raccolta di alcune fiabe tradizionali più famose.

Molto importanti furono nel Settecento la traduzione e la diffusione in Europa de Le mille e una notte, una ricchissima raccolta di fiabe del mondo arabo e orientale, come I viaggi di Sindbad o Aladino e la lampada magica.

Tra il 1720 e il 1806 vive Carlo Gozzi, che trasporta le fiabe in versione teatrale, creando nuove realtà che assurgono agli onori letterari (soprattutto con il ciclo che vede la luce tra il 1761 e il 1765).

Fu soprattutto nell’Ottocento che in vari Paesi europei furono trascritte le antiche fiabe della tradizione; per trovare una trascrizione veramente fedele al linguaggio e alla tradizione popolare, bisogna aspettare Le fiabe del focolare, dei fratelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm Grimm (1786-1859), raccolte appunto all’inizio dell’Ottocento. Le fonti della loro più celebre raccolta Fiabe per bambini e famiglie furono amici e conoscenti e soprattutto una vecchia signora povera e analfabeta, Dorothea Viehmann. Essi erano convinti che attraverso le fiabe avrebbero fatto conoscere e amare la cultura e le tradizioni del loro Paese a tutti, non solo ai bambini. Tra le fiabe raccolte le più note sono: Pollicino e Hansel e Gretel.

Durante il Romanticismo le fiabe furono valorizzate come espressione di poesia ingenua e se ne cominciò la raccolta sistematica, spesso trascrivendole direttamente dalla lingua o dal dialetto originari (via decisamente criticata da Benedetto Croce nel 1925, all’interno della Prefazione alla nuova pubblicazione de Lo cunto de li cunti, secondo il quale è fondamentale una mediazione artistica e stilistica che permetta di riconoscerne l’autore).

L’esempio dei Grimm fu seguito in Russia da Aleksandr Afanas’ev (1826-1871); fin da ragazzo cominciò a riscrivere le fiabe e le leggende popolari che i contadini raccontavano di sera intorno al fuoco durante i lunghi e freddi inverni. Nel 1855 pubblicò il primo volume delle sue fiabe, a cui ne fece seguire altri sette.

In Norvegia raccolsero fiabe Peter Abiornsen e Jorgen Moe.

Gli autori di fiabe, invece, hanno elaborato storie e trame inventate da loro stessi; un grande autore classico è il danese Hans Christian Andersen (1805-1875), autore famoso per i suoi racconti, tra cui ricordiamo La piccola fiammiferaia e Il brutto anatroccolo.

Tra gli autori più importanti dell’Ottocento troviamo gli italiani Emma Perodi e Luigi Capuana. Circa l’opera di Capuana, che è l’autore che traghetta la fiaba nel Novecento, Benedetto  Croce pronuncerà con assiomatica perentorietà una liquidazione che coinvolge la fiaba nel suo insieme sulla base di una pregiudiziale gravissima: “l’arte per bambini non sarà mai arte vera”.

Sulla base di questo giudizio la letteratura fantastica in Italia ha subito un ritardo nella considerazione della sua dignità presso la popolazione civile di circa settanta anni! Bisognerà aspettare la fine del XX secolo per ritrovare un movimento di riscoperta della narrativa fantastica, specialmente nel campo del genere fantasy.

Nel 1881 vede la luce la fiaba più famosa di sempre: Pinocchio, o La storia di un burattino di Collodi, una fiaba totalmente estranea al «sentimentalismo programmatico» che aveva caratterizzato la fiabistica di Fine Ottocento (e in strenua opposizione a ciò che autori italiani di fantasy a noi contemporanei vanno dicendo per demolire la fiaba). La prima versione della fiaba termina con la morte del burattino a causa della sua cocciutaggine nel non ascoltare i consigli, e il burattino venne resuscitato per richieste dei lettori.

Altri famosi autori italiani di fiabe furono Gabriele D’Annunzio, Grazia Deledda, Cesare Causa, Adriano Salani, Carolina Invernizio, Guido Gozzano, Piero Calamandrei, Alberto Moravia, Luigi Malerba, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gianni Rodari, Stefano Benni, Roberto De Simone. Il Novecento è un vero e proprio trionfo della fiaba, nonostante la disattenzione popolare per questo genere. Italo Calvino (1923-1985), uno dei più famosi scrittori italiani del Novecento, nel 1956 pubblicò in Italia la più ricca raccolta di Fiabe Italiane, tratte dal patrimonio favolistico di tutte le regioni. Egli non riscrisse storie narrate a voce, ma trascrisse in lingua italiana racconti in dialetto tratti da libri di varie regioni d’Italia, in modo che potessero essere compresi da tutti.


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