Ancora su Dio (#27)

Credo sia necessario approfondire ulteriormente gli spunti che ho dato in questo post su Dio: un argomento talmente vasto, da non poter che balbettare qualcosa.

Dio non manda i mali, dicevo: tuttavia, per quanto si provi a ragionare sul collegamento tra Dio e il mondo, tra Dio e gli eventi, tra il concetto di un divino che è sempre presente e, secondo il miglior insegnamento religioso, dovrebbe essere al nostro fianco e la constatazione che siamo invece circondati da mali di ogni sorta, il dubbio è lecito. Se Dio esiste, ammesso che esista, e se è buono, perché permette che soffriamo? La secolare, di più, millenaria domanda che ha spronato le coscienze di molti a interrogarsi, spingendoli verso risposte le più disparate. Forse dovremmo rivedere il nostro concetto di bontà legata a Dio? Quando nei Vangeli qualcuno si rivolge a Gesù definendolo “buono”, lui chiede perché lo si chiami buono, dal momento che “solo il Padre che è nei cieli è buono”. Ma oggi, in modo particolare nel pieno di questa pandemia, ci è ancora permesso pensare la bontà di Dio con un approccio genuino o immediato? O forse, non dovremmo giungere a credere che Dio sia buono attraverso l’ennesimo atto di fede?

Ecco che si evidenzia come ogni atto di fede nei confronti del divino, anche quello che presuppone che Dio sia buono per definizione, non è un atto ingenuo, indolore, facile, ma è frutto di una fede matura che decide di affidarsi.

Un uomo che pregava perché lui e i suoi cari venissero protetti dalle situazioni avverse, dicevo: perché preghiamo? Chiediamo qualcosa? È il miglior modo di pregare, questo? Di quale contenuto riempiamo il nostro rivolgerci al divino? Qual è la miglior preghiera? Mi sono fatto una convinzione: chiedere a Dio di risparmiarci il male è come chiedere al mondo di non essere se stesso. Per quale motivo Dio avrebbe “creato” il mondo (con tutto ciò che questa frase può significare, al di là di ogni ingenuità) e poi, a motivo delle nostre preghiere, dovrebbe risparmiarci dalle conseguenze stesse del mondo? Un tempo, nel cristianesimo si diceva che il mondo si era corrotto con il peccato di Abramo. E questo è un modo mitico per rispondere: guai, però, ad assumere il mito quale spiegazione logica, perché non potrà mai esserlo. Il mito è la fase che precede la logica, la logica è il superamento del mito. Se pensiamo che la spiegazione offertaci dal mito sia spiegazione logica del perché il mondo è, tra le altre cose, un carico di dolore e sofferenza, siamo sulla strada sbagliata, sotto ogni aspetto. Un uomo pregava di venir protetto: e se la protezione che il divino offre fosse il divenire consapevoli della necessità di affidarci a Lui, come viene raccontato nel Libro di Giobbe, attraverso ogni possibile male?

In fin dei conti, credo che la preghiera serva a noi, per divenire più consapevoli. Se la preghiera cade lontana da noi, non serve a nulla. Dio, infatti, è quanto di più intimo abbiamo.

Dio è un orologiaio attento, capace di muovere gli eventi del mondo: si tratta di una delle famose tesi della filosofia moderna. Dio avrebbe congegnato gli eventi del mondo e delle persone in maniera tale da collimare tra di loro, da camminare all’unisono. Una tesi che voleva dimostrare la Provvidenza divina. Tuttavia, ciò non spiega nulla perché rimanda all’interrogativo su come mai Egli abbia deciso che nel mondo ci sia anche il male. Anzi, fa peggio: ci priva perfino dell’illusione della libertà e il volto divino che viene disegnato in questo modo è orribile. Si tratterebbe davvero, in fin dei conti, di un Dio machiavellico, che ritiene opportuno utilizzare ogni mezzo, anche malvagio, per ottenere il suo scopo (per il resto sconosciuto!). Eppure, si tratta comunque di un interrogativo, quello della presenza del divino nella nostra vita, nelle nostre vite, che ha il suo motivo di essere: in che modo è possibile cogliere la Sua presenza, sempre ammesso che la si voglia cogliere? In quali pieghe dell’esistenza riusciamo a scorgere il passaggio di un dio e in che cosa consiste, tale passaggio?

Interrogarsi su quanto ci lasciamo irretire dalla possibilità della presenza del divino, credo sia un grande passo verso la maturità di una qualunque fede.

Riempiva Dio di parole, dicevo: ne ho conosciute di persone che riempiono le loro preghiere di parole, che si rivolgono a Dio come se fosse un mago capace di risolvere ogni questione. Questo atteggiamento è diffuso ovunque, e va dalla formula più ingenua (che può essere quella del pregare un rosario chiedendo che Dio – o, peggio, la Madonna – faccia qualcosa per noi) a quella più subdola (come può essere il voler mettere alla prova Dio, per costringerlo a darti una risposta, cosa che – ho letto – faceva per esempio anche Madre Teresa di Calcutta). D’altronde, non è stato Gesù a dirci di sfiancare il Padre di richieste insistenti? Vero, lo ha fatto intendere in Luca 18,5: “poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”. Ma subito dopo (18,7): “E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare?” Evidentemente, quando il Vangelo di Luca fu scritto, già ci si rendeva conto che si sarebbe dovuto aspettare a lungo prima che la giustizia di Dio fosse compiuta per il mondo. E siamo ancora qui ad aspettare, verrebbe da dire. Forse è questo il senso: riempire di parole o continuare a credere che Egli interverrà? “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”

L’attesa è per la fede; aspettando, impariamo a fidarci. Ancora una volta, la preghiera non è una formula magica che risolve situazioni, ma un’insistente fiducia nella possibilità del Suo intervento.

Ho sentito parlare uno scienziato, e sosteneva che Dio non può essere il vincastro di nessuna persona: nella fattispecie, Carlo Rovelli. In un suo video spiega perché è ateo, ma le spiegazioni che fornisce, sono legate al suo vissuto personale: non crede in Dio perché sente di non avere bisogno di Dio. Questo video è stato utilizzato da molti per dire: vedete, è così che si crede in Dio, non come un vincastro, un bastone al quale appoggiarsi, ma come per una fede pura, pulita, che dichiara già quale ultra-uomini siamo, capaci di basarci sulle nostre sole forze. Per carità, ognuno è ovviamente libero di dire ciò che ritiene, ma perché dare tanta corda alle dichiarazioni personali di uno scienziato? Forse si ritiene che dal momento che quello scienziato è un grande scienziato (e Rovelli è davvero un importantissimo scienziato e grande per le sue teorizzazioni sul tempo), allora ogni suo modo di ragionare debba essere considerato corretto o valido anche per gli altri? Sarebbe bello fosse così, ma la storia è piena di dimostrazioni contrarie. Il pensiero personale sul divino di Rovelli è unicamente il suo pensiero personale, non è un pensiero filosofico fatto secondo i crismi del ragionamento filosofico, tanto meno di quello scientifico. E di sicuro non incrocia il sentire di una fede “religiosa”.

Credo che ogni persona abbia diritto a credere in Dio in quanto vincastro, in quanto sostegno personale alla propria debolezza. In fin dei conti, la religione non è nata per questo? Vi è indubbiamente un modo superiore di legarsi a doppia mandata al divino (significato di re-ligione), ma il senso principale di questo atto sociale è proprio quello di cercare protezione.

Un Dio senza volto, quello che sempre più si fa strada nell’arte contemporanea: eppure, Gesù Cristo aveva un volto. E se vogliamo prescindere da Cristo, Mosè non era forse le braccia di Dio e Aronne suo fratello la voce? E Maometto non è il Profeta? E l’atman non si concretizza forse nel brahman? E gli sciamani non hanno un animale guida? E l’essenza stessa della spiritualità non è forse approcciarsi in continuazione al fenomeno del divino? E il mistico più alto non è quello che vede Dio nel buio totale?

Un’arte che non è più in grado di mostrare il volto di Dio, allora, non è forse la dichiarazione che Dio ha il volto di ciascuno di noi?

“Prego Dio perché mi liberi da Dio”, diceva un grande mistico. Era Meister Eckhart. Credo che in questa sua frase sia racchiusa l’essenza profonda di cosa vuol dire approcciarsi a Dio, al divino o in qualunque altro modo vogliate chiamarlo: significa essere disposti ad accogliere la differenza che la Sua presenza può comportare nella nostra vita. Una differenza che si concretizza sempre tramite qualcosa di nuovo, che può accadere solo se siamo capaci di andare oltre il nostro legittimo desiderio (no, non bisogno, ma desiderio, de-sidera: dalle stelle) di vedere il divino, di essere una sola cosa con Lui, di essere in Sua compagnia.

E per arrivare a questo, non è forse necessario passare attraverso una morte personale, una morte delle nostre concezioni limitate, nella consapevolezza che è possibile divenire sempre più liberi dalle convinzioni che la società ci ha inculcato? Nel bene e nel male.


2 risposte a "Ancora su Dio (#27)"

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