L’antropologo Mircea Eliade ha chiarito in modo esemplare come il mito non sia una semplice storiella leggendaria, che viene utilizzata da una popolazione primitiva per spiegare ciò che non riesce a comprendere. Un simile modo di guardare al mito rivela un pregiudizio fortemente illuministico, nella convinzione che esista una cosa chiamata “evoluzione” anche nella storia di un popolo.
Il mito, secondo Eliade, è invece quell’ambito narrativo attraverso il quale si comprendono i perché di una società, i perché dei suoi riti, i perché dei suoi comportamenti. In breve, tramite i miti di riferimento si comprende l’esistenza di un popolo.
Dagli studi di Mircea Eliade si evidenzia come ogni tipologia di rituale umano (il rituale è un gesto imprescindibile di ogni società, sia esso riferimento alla sfera considerata sacra o sia esso un gesto profano) si rifaccia a un modello divino, che egli chiama archetipo: un modello posto al di fuori della sfera profana dell’uomo. Tale modello extraumano legittima gli atti umani, imitando gesti divini o episodi del dramma sacro del cosmo, e la ritualità dell’uomo va così a costituire nei significati l’imitazione di un gesto archetipico, ripetizione e attualizzazione del tempo in cui accaddero. Il medesimo principio vale per la natura, che viene dall’uomo formata, controllata, modellata e resa preziosa non in se stessa, ma per la sua partecipazione a un archetipo o per la ripetizione di gesti e parole che la consacrano. Non riusciamo a vedere in queste parole, per fare un solo esempio, ciò che i popoli elfici instaurano con il mondo naturale nelle storie di J. R. R. Tolkien?
Ciò che può disturbare noi cittadini del XXI secolo, passati attraverso la rivendicazione di una coscienza autonoma e individuale, ma sempre più spesso individualista, è che, secondo il modo di pensare antico – quello che Eliade definisce concezione ontologica primitiva – «un oggetto o un atto diventa reale soltanto nella misura in cui imita o ripete un archetipo».
Noi abbiamo totalmente desacralizzato il mondo, abbiamo tolto ogni aspetto spirituale alla natura e all’esistenza, tranne in alcune concezioni religiose e spirituali diffuse: fortunatamente, per quanto riguarda la religione di mia appartenenza, il cristianesimo continua a conservare quell’anelito al divino e alla possibilità di una nuova unificazione che l’ha costituito come adorazione del Figlio di Dio.
D’altra parte, Max Weber sostenne che «la liberazione dal razionalismo e dall’intellettualismo della scienza costituisce il presupposto fondamentale della vita in comunione con il divino: questa, o qualcosa di significato identico, è una delle parole d’ordine che si ritrovano ovunque nel modo di sentire dei nostri giovani credenti o che aspirano a un’esperienza religiosa. E ciò vale non soltanto per l’esperienza religiosa, ma anche per l’esperienza vissuta in generale». Weber scriveva così nel 1917 (in Max WEBER, Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, Milano: Einaudi 1948), ma verrebbe da credere che il suo pensiero possa essere riferito a ogni manifestazione narrativa di genere fantastico degli ultimi duecento anni, non escluso, perciò, il fantasy.
Spesso tacciato di escapismo, il fantasy può rivelare, in realtà, una profonda aspirazione del cittadino mondiale contemporaneo: quella di un quadro d’insieme dell’esistenza che non sia più soltanto logico-razionale, nei meandri ristretti di uno scientismo purtroppo sempre più pervasivo, ma che riesca di nuovo a contemplare il divino dal quale ogni essere umano si sente derivare, che lo colga in modo esplicito oppure no.
Anche in Storia di Geshwa Olers vi sono, ovviamente, miti di riferimento, che vengono considerati esattamente al modo di Eliade: riferimento per la comprensione del mondo in cui si muovono i protagonisti della storia, ma anche specchi nei quali scoprire le proprie modalità (proprie del lettore, intendo) di confronto con il mondo. A partire dal mito di Makut (vedi il capitolo “Il ponte di Makut del I volume) o dal mito dell’Attesa, che viene narrato in quella serata di condivisione dei racconti ad Alsi Fårsy (sempre nel I volume).