Demoni: realtà simbolica /7

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Husserl, il padre della fenomenologia.

Prima di proseguire e accedere a un approccio filosofico (come dicevo: fenomenologico) dell’esperienza demonica, vorrei ulteriormente chiarire un aspetto relativo alla trasmissione del concetto della demonicità in quanto opposizione al progetto di Dio.

Cristo, dicevamo, ha già vinto l’oppositore. In Luca 10,18 Gesù diceva che vedeva “Satana precipitare dal cielo come un fulmine” (in gr. è “tòn Satanàn”, il satana, ma tant’è… la traduzione oltre che personalizzare, entifica). È però l’Apocalisse 12 a unificare una volta per tutte le realtà maligne che si oppongono al progetto di Dio, rendendole l’oggetto di quel “precipitare” di Luca 10,18. Ecco il brano intero nei vv. 7-10:

E vi fu guerra in cielo: Michele con i suoi angeli ingaggiò battaglia con il dragone; per questo combatté insieme ai suoi angeli; ma non prevalse, né vi fu più posto per loro in cielo. Il grande dragone, il serpente antico, quello che è chiamato diavolo o Satana e che inganna il mondo intero, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. Udii allora nel cielo una gran voce: “Ora si è attuata la salvezza, la forza e la regalità del nostro Dio e la potestà del suo Cristo, poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che giorno e notte lì accusava davanti al nostro Dio.”

Attenzione, però, che tutti questi concetti vengono qui uniti per significare un’unica cosa: il male, ogni genere di male, è stato già vinto. Il serpente cui si fa riferimento è quello della Genesi, che però non è originariamente considerato come il Diavolo. Questo lo è divenuto solo nella successiva tradizione cristiana: all’origine rappresentava l’opposizione, esattamente come il satana in Giobbe.

Ma passiamo a un approccio filosofico, fenomenologico. Tra tutte le filosofie, la fenomenologia – forse la “scuola” filosofica più importante degli ultimi cent’anni – è quella che permette di non giudicare, di non affrontare alcunché con pregiudizi o preconcetti. Ogni genere di giudizio su ciò che viene accostato dal ragionamento dev’essere messo tra parentesi (quella che Husserl, il padre della Fenomenologia, chiamava epoché) e il contenuto da analizzare accolto nel tentativo di comprendere cosa stia accadendo a livello di esperienza umana. Per sua natura, la fenomenologia non analizza il particolare, ma il generale, quindi procederò per categorie generali. Nella fattispecie: l’esperienza demonica.

L’esperienza demonica si manifesta come la percezione di un’entità maligna o di un avvenimento maligno, del tutto contrario al bene della persona che lo subisce, caratterizzato da un’identificazione dello stesso con una sorta di “personalità” esterna a noi. Di mezzo c’è sempre una personificazione del male. Potremmo dire che l’esperienza demonica consiste proprio nel cogliere una personificazione del male. Di per sé è perciò inutile contraddire chi racconta di un’esperienza demonica dicendogli una serie di frasi precostituite:

  • stai oggettivando il male che c’è dentro di te
  • stai oggettivando una tua paura
  • è solo una tua impressione
  • queste cose non esistono.

Si tratta di pregiudizi impossibili da dimostrare almeno quanto l’esistenza concreta di una presenza demonica. Oltretutto, questi giudizi dati a chi racconta una simile esperienza sono esclusivi e conclusivi: esclusivi, perché escludono aspetti della realtà che per qualche motivo noi potremmo anche non cogliere; conclusivi, perché chiudono fuori di noi quella realtà e chiudono dentro chi ci narra l’esperienza un fatto che, in quanto evento narrabile, ha la necessità di essere raccontato all’esterno di chi l’ha esperito.

Detto questo, dovrebbe essere chiaro che l’atteggiamento più corretto da tenere nei confronti di queste esperienze – che capitino a noi oppure che ce le sentiamo raccontare – sia quello di un sano scetticismo, che non vuol dire “non credere”, anzi, tutto il contrario: che vuol dire “dare per possibile la verità del racconto, anche se non decido di crederci in maniera definitiva”. È proprio questa possibilità data alla verità del racconto a rendermi possibili alcuni interrogativi, che richiedono una risposta seria:

  • esiste un male oggettivo? (1)
  • la paura che proviamo indica qualcosa di concreto fuori di noi o solo dentro di noi? (2)
  • l’impressione di una persona di fronte a qualcosa può nascere totalmente dalla sua mente o c’è sempre il concorso di qualcosa di esterno? (3)
  • esistono più cose di quelle che percepiamo noi? (4)

(1) Che esista un male oggettivo è un dato di fatto, legato però a doppia mandata a un aspetto sempre psicologico, che non lo esaurisce. Si pensi a una malattia mortale: qualcosa che noi non possiamo controllare ci capita, la viviamo con un atteggiamento passivo del quale dobbiamo trovare un senso per non morire interiormente già prima che accada esteriormente. Ma è proprio questa possibilità di trovare un senso a qualche negatività non cercata né voluta a farci capire come il male subito, che perciò non dipende mai da noi, possa essere vissuto con un aspetto psicologico positivo. Il male, perciò, che esiste anche in maniera oggettiva, ha sempre dei risvolti personali, psicologici, che talvolta ci rendono difficile dire se esso esista indipendentemente dalla nostra mente oppure no. Ora: se il demonico è tradizionalmente considerato come qualcosa di esterno a noi ed è maligno, in quale grado possiamo considerarlo oggettivamente oppure come solo un nostro modo di pensare negativamente?

(2) Sappiamo tutti che la paura è una risposta del nostro organismo a ciò che viene percepito come una minaccia. Se la nostra mente, il nostro corpo, percepiscono una minaccia, sia essa mentale o concreta e fisica, abbiamo paura. La paura è un indicatore concreto che ci sta indicando l’esistenza di qualcosa che per noi è pericoloso. In che misura, però, possiamo dire che la minaccia che percepiamo sia davvero sempre mentale e non anche fisica, sebbene non colta con gli occhi o con il corpo? Non è mai possibile dire a una persona che sta tremando e che vive un’esperienza spaventosa che non deve spaventarsi, essendo la causa della sua paura tutta interiore: non otterremmo alcunché, perché in quel momento quella persona avrà la netta sensazione che ciò che sta vivendo sia del tutto reale. Qual è allora il confine tra il reale e il non reale relativamente a una paura? Forse non è mai possibile dirlo in maniera definitiva.

(3) e (4) Il concetto appena sostenuto può apparire come il classico sofisma di chi vuole creare confusione, così da poter affermare le proprie idee. Ma sono, invece, proprio i successivi due interrogativi (cioè se sia possibile che un’impressione – che non è altro che un’idea della mente – possa sempre e solo nascere all’interno della persona e se invece non abbia bisogno anche di qualcosa di esterno, e poi se esistano più cose di quelle che percepiamo) a gettare una certa luce sul fatto che la paura è sempre una reazione reale del nostro organismo. C’è qualcuno che sa dirmi con certezza se la sensazione di bene che si prova di fronte alle cose sia solo e unicamente una risposta della nostra mente del tutto ascrivibile alla nostra convinzione personale o se, invece, non dipenda anche dal reale e concreto apporto di un bene esterno alla nostra persona?

La risposta non può che essere metà e metà, perché è ovvio che se non ci fosse quel bene esterno alla nostra persona, noi non potremmo viverlo come un qualcosa di positivo per noi. Certo, potremmo vivere quel bene come una sciagura, ma sarebbe sempre quel bene a essere vissuto come tale. Come minimo, perciò, bisogna dire che ci sia qualcosa di esterno che ha provocato una nostra reazione, sia essa positiva o negativa.

Proviamo a fare lo stesso ragionamento con l’esperienza demonica: c’è qualcuno che sa dirmi con certezza se la sensazione di male che si prova di fronte a essa sia solo e unicamente una risposta della nostra mente del tutto ascrivibile alla nostra convinzione personale o se, invece, non dipenda anche dal reale e concreto apporto di un male esterno, percepito come personale, alla nostra persona? La risposta, se la logica è logica, non può che essere anche in questo caso: metà e metà. Se non ci fosse un certo male identificabile con una personificazione maligna non potremmo parlarne in quel modo, a meno di non contraddire il nostro stesso ragionamento.

Ciò che ho appena detto non può essere ovviamente accolto come una dimostrazione “fisica” e concreta dell’esistenza di un dèmone, ma deve senza dubbio farci pensare che non è possibile escluderla a priori. Basti, per esempio, un’altra considerazione: in uno dei post precedenti mi chiedevo se fosse possibile credere che esistano milioni di dèmoni come immaginato da quel francescano, Alfonso De Spina, nel XV secolo. La risposta era no. Però, alla luce di quanto detto, agendo con un dubbio metodico, ci si deve pure chiedere: è possibile credere che milioni di persone nella storia dell’umanità si siano sempre sbagliate riguardo alle proprie percezioni di entità maligne? Ovviamente, la risposta è anche in questo caso: no. Il che non vuol dire che allora sia già possibile affermare che dunque esistono i dèmoni, senza ombra di dubbio, ma per lo meno che sia necessario pensare che possano esistere, in una forma che noi esprimiamo tramite simboli.

Questo lunghissimo post si ferma qui. Mi rendo conto che non ho esaurito il ragionamento, ma si potrebbe scrivere un intero saggio senza mai esaurirlo. Nel frattempo, vi rimando al prossimo post, che riguarderà il pensare la Madonna come “tallone che schiaccia la testa del serpente”. A presto!

 


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