Il simbolo è una finestra, aperta sull’inatteso. L’inatteso vive spesso (per non dire sempre) dentro di noi. Se l’inatteso emerge in superficie, ci parla come una novità, capace di modificare il nostro rapporto con il mondo, conseguenza del nostro cambiamento interiore.
Il racconto è una struttura sensata di simboli.
Non esiste, a dire il vero, narrazione che non lo sia, anche la più trita e banale. Certo, nel caso di un racconto scontato e banale, quella che viene utilizzata è una “simbolica” talmente conosciuta, da apparire ormai priva di ogni capacità di smuoverci. Come se ascoltassimo una canzone udita mille volte: la anticipiamo nella nostra mente e la priviamo di ogni possibilità di dirci qualcosa di nuovo.
Si possono, tuttavia, utilizzare simboli conosciuti in modo nuovo, creando collegamenti inattesi, pescando direttamente dalle profondità di se stessi. Ciò che è sorprendente, infatti, nasce sempre dalla sincerità di un cuore. Un’anima capace di raccontare la verità di sé, diverrà capace di narrare secondo una “simbolica” che apparirà sempre nuova, pure se utilizzata già mille volte. Addirittura, un autore può utilizzare sempre lo stesso simbolo, raccontandolo però in un modo sempre differente, creando storie del tutto diverse.
Io, per esempio, ho utilizzato lo “scarafaggio”, creatura per me del tutto repellente, con significati differenti, ma in qualche modo collegati tra loro (e come capaci di creare una struttura di senso leggibile in maniera inconscia), in vari racconti e romanzi: in La faida dei Logontras, in Commento d’autore, in La porta sbagliata e in Scarafaggi.
Una risposta a "Simbolo e racconto: porta dell’anima"