1981 – Danse Macabre, parte seconda

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L’occasione. Pubblicato nel 1981, si tratta di un vero e proprio saggio, il primo del Re, che ci aiuta ad addentrarci non solo nell’immaginario che ha costruito la fantasia dell’autore, ma anche nelle strutture che regolano la narrazione cosiddetta dell’orrore. L’occasione della stesura fu una proposta allettante che gli fece l’amico Bill Thompson, colui che gli aveva pubblicato i primi romanzi (CarrieLe notti di SalemShiningA volte ritornano e L’ombra dello scorpione) e che lo aveva seguito nei suoi primi scritti, quando ancora il Re non era edito. Gli instillò il cosiddetto tarlo, proponendogli di scrivere un libro sul fenomeno dell’horror, come lo vedeva lui. Vi immaginate la mente vulcanica di King già al lavoro dopo soli cinque minuti dalla proposta, diviso tra l’attrazione e il terrore per l’idea?

Come dice la quarta di copertina, Danse macabre è un’opera “che è diventata un piccolo classico, un cult, nella quale un autore a sua volta di culto celebra l’horror definendone gli archetipi in una ridda in cui danzano, tenendosi per mano, letteratura e z-movies, leggende metropolitane e cinema d’autore, serie Tv, fumetti e perfino le figurine“.

Nel quinto capitolo, Stephen King si concentra sulla radio a metà degli Anni Cinquanta. E lo fa per dire, in breve, che la radio muore proprio in questo periodo. Intitolato La radio e la visualità del reale, questo capitolo fa una carrellata di programmi di vario tipo, per chiarire subito che l’unico programma radiofonico di quel periodo che fosse in qualche modo adatto agli argomenti di Danse Macabre era Suspense, della CBS, un programma che però termino nel 1962. Ciò che avvenne fu che i volti dello schermo sostituirono, poco alla volta, le voci della radiofonia.

Ecco ciò a cui punta King. Lo dice come al suo solito con grande chiarezza:

Ma voglio dire qualcosa sul ruolo dell’immaginazione come strumento nell’arte e nella scienza di impaurire la gente. Non è una mia idea originale: l’ho sentita esprimere da William F. Nolan alla World Fantasy Convention del 1979. Niente terrorizza più di ciò che è dietro alla porta chiusa, disse Nolan. Ti dirigi verso la porta nella vecchia, solitaria casa, e senti qualcosa che gratta. Il pubblico trattiene il respiro con il protagonista mentre lei/lui (più spesso lei) si avvicina alla porta. Il protagonista la apre, e c’è un insetto di tre metri. Il pubblico urla, ma l’urlo ha uno strano sentore di sollievo. “Un insetto di tre metri è orribile”, pensa il pubblico, “ma si può accettare un insetto di tre metri. Avevo paura fosse alto trenta metri.”

Danse Macabre, p. 126.

Ciò che si rivela come fonte della paura, o meglio, il punto cui tende la paura, ciò che ci si rivela, ovverosia il mostro, non è mai spaventoso, al vederlo, come la paura stessa che ce lo fa immaginare. A spaventarci di più, è lo stesso processo che ci porta a sentire la paura. Sotto questo aspetto, l’immagine visualizzata sullo schermo vive sempre un distacco e uno scarto, rispetto a ciò che può essere immaginato: la radio compiva alla perfezione il suo compito, perché il suo punto forte era proprio ciò che era in grado di evocare.

Quando passa ad analizzare il modo in cui gli scrittori suscitano la paura, Stephen King mette in campo un concetto che abbiamo già visto nel capitolo iniziale del libro: alcuni scrittori non aprono mai quella porta dietro cui si nasconde l’insettone, e perciò provocano paura suscitandola nell’immaginazione e nell’aspettativa; Lovecraft, dice King, avrebbe aperto la porta, ma solo per uno spiraglio, e il motivo è presto spiegato. Leggo dal libro:

Credo che … Lovecraft si [rendesse] conto che aprire la porta, novantanove volte su cento, significa distruggere l’effetto quasi onirico del miglior horror. “Mi posso abituare a questo”, si dice il pubblico, si riadagia in poltrona e bang! la partita è persa all’ultimo minuto. La mia disapprovazione per questo metodo (faremo gonfiare la porta ma non la apriremo mai) viene dalla certezza che è una partita giocata per il pareggio e non per la vittoria. Dopotutto c’è, o può esserci, quella centesima volta, e c’è il concetto della sospensione dell’incredulità. Di conseguenza, a un certo punto preferisco spalancare la porta; far vedere le carte. E se il pubblico si mette a ridere, se vedono la lampo sulla schiena del mostro, allora bisogna tornare al progetto e riprovarci.

Danse Macabre, p. 129.

Ma in tutto questo discorso, la radio come si posiziona? La radio va oltre tutta questa impostazione, perché è esente da ogni visione diretta della mostruosità. Anche quando si descrive un mostro, l’immaginazione ha un ruolo preponderante e non è mai come vederlo su uno schermo, che sia del cinema o della televisione. Eppure, come gli spettatori sono disposti a credere a ciò che i cineasti mostrano loro, così gli ascoltatori sono disposti a credere a ciò che sentono dire dagli speaker e dalle voci della radio. Sotto questo aspetto, la radio poteva risultare perfino più credibile. Avete presente l’effetto War of the Worlds di Orson Welles?

Nel sesto capitolo, intitolato Il moderno film horror americano, testo e significato, King entra in modo più approfondito nel nuovo immaginario horror prodotto dal suo paese, affermando e analizzando alcuni principi o aspetti generali.

1 – Il valore artistico offerto più frequentemente dal film horror è costituito dall’abilità di instaurare una relazione tra le nostre paure immaginate e quelle reali. Bisogna però tener conto del fatto che l’arte, dice King, non è creata consciamente, ma viene emessa come le radiazioni da una pila atomica.

2 – Il grande rischio che un regista di film horror si assume quando ne gira uno, è duplice. Da un lato, vi è la possibilità di fallire, ma il fallimento è il rischio che è comune ad altri ambiti artistici, dove ugualmente si può fallire. D’altro canto, quando a fallire è un film horror, il rischio specifico è lo scadimento, che si traduce in penose assurdità logiche o sceniche e in una esplicita pornoviolenza.

3 – Il terzo aspetto che mette in luce è quello relativo all’eventuale merito sociale di un film horror. Se ne hanno uno, è un merito sociale di redenzione, ed è costituito dalla loro capacità di istituire relazioni tra il reale e l’irreale, di fornire dei significati. Ora, questi significati possono essere di due tipi:

  • negli Anni Cinquanta e Sessanta, i significati espressi mettevano in luce le paure sociopolitiche, in film quali L’invasione degli ultracorti oppure L’esorcista;
  • più spesso, però, il film horror americano ha guardato verso le paure interne, alla ricerca di quei famosi punti di pressione di cui dicevamo nella prima parte di questo articolo. Di solito, questi punti di pressioni vengono raggiunti impaurendoci con il superamento dei tabù. Si vedano film quali La iena (l’uomo di mezzanotte) oppure L’abominevole dottor Phibes. Film che promettono di poterci condurre oltre lo steccato dei tabù, come faceva nei disclaimer il famoso film Mondo Cane, negli Anni Settanta, anche se era più pubblicità che altro.

Un film dell’orrore, dice Stephen King, esercita pressione su tutti i punti possibili, sovrapponendo tutti i piani analizzati. Si prenda a esempio La notte dei morti viventi: per l’appunto, esercita pressione su tutti i punti.

È violento – dice King – e lo è anche il seguito, Zombi, ma la violenza ha la sua logica; e affermo che nel genere horror la logica va molto vicina a dimostrarsi moralità.

Dance Macabre, p. 152.

Questo è ciò che di più importante King mette in luce, secondo me, in questi due capitoli centrali del suo saggio. Nella parte restante del sesto capitolo, analizza le due tipologie di horror indicate, quello sociale e quello che supera i tabù, con molti esempi tratti dalla sua memoria di spettatore horror, film che tanto hanno contribuito a costruire il suo immaginario.


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