Vorrei soffermarmi sul senso della parola povertà: dal contrasto alla povertà degli Stati evoluti all’abolizione della povertà dei populismi, il concetto si declina senza che vi sia mai una riflessione adeguata su quale possa essere il senso plurale di questa parola.
C’è, infatti, una povertà buona e c’è una povertà cattiva. Vediamo in che senso.
La povertà buona è quella che migliora l’essere umano, quella che lo conduce verso la verità e che gli permette di completarsi sempre più perché si riconosce privo di qualcosa o di molto.
La povertà buona è quella di chi è essenziale, e perciò vive una povertà economica come scelta, che non si traduce per forza nel non avere mezzi, ma nel rinunciare a tutto ciò che è superfluo alla completezza di sé, libertà fondamentale. San Francesco ne è l’esempio chiarissimo.
C’è, poi, una povertà buona a livello spirituale, quella di cui lo stesso Vangelo dice Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3): che non vuol dire che sono privi dello Spirito, ma che sono poveri nello Spirito, per cui sono in grado di riconoscere il proprio vuoto interiore e di abbandonarsi all’agire dello Spirito di Dio.
È buona la povertà interiore che, come dicevo, riconosce che in realtà siamo fatti di vuoto, e che ogni nostra convinzione non è altro che il frutto di un habitus che indossiamo, ma che non esaurisce il significato della nostra esistenza.
Poi, c’è una povertà buona anche a livello culturale, che è quella capacità di riconoscere un ampliamento sempre possibile del significato della nostra esistenza su questa terra: esistono altre culture, esistono altri modi di intendere la vita e altri modi di vivere che ci permettono di arricchirci nel momento in cui siamo in grado di accoglierli. La povertà culturale buona è proprio quella che ci permette di accogliere la ricchezza altrui.
Altro discorso è la povertà cattiva, che ci rende peggiori perché ci chiude nel piccolo terreno della nostra affermazione.
C’è una povertà cattiva a livello economico, che è quella che significa indigenza e privazione dei mezzi necessari a essere davvero e dignitosamente umani. È una povertà cattiva perché permette a chi invece i mezzi ce li ha, di controllare e di usurpare.
C’è una povertà cattiva a livello spirituale, che è la pochezza di affidamento, l’incapacità di accogliere l’azione del Totalmente Altro e del Diversamente Uguale dentro di noi, un ripiegarsi su noi stessi nella convinzione che ciò che siamo sia sufficiente non soltanto per noi, ma anche per tutti gli altri.
C’è poi una povertà cattiva a livello culturale, che è la mancanza di mezzi culturali utili a interpretare la realtà, nella comprensione che la realtà non è mai quella che pensiamo noi, ma è sempre qualcosa di profondamente diverso da ciò che intendiamo nelle nostre convinzioni.
E c’è, infine, una povertà cattiva che è quella di chi non riesce a mettere in discussione la propria conoscenza personale, per poter poi, eventualmente, fare spazio alla ricchezza che viene dalla totalità della vita.
Al termine di questa breve riflessione, perciò, un invito: non vergogniamoci a dirci poveri e a inseguire la povertà, ma facciamo che questa sia la povertà buona, quella che ci spinge a divenire sempre più noi stessi.