Quest’anno vorrei proporre, per la riflessione nel Triduo Pasquale, una serie di brevi racconti, narrati dal punto di vista di alcuni protagonisti delle vicende evangeliche. Iniziamo, ovviamente, dalla Coena Domini, e da Pietro (Képha).
Quell’aria tesa, l’avevamo respirata fin dalla mattina. Avevo ancora in mente l’immagine di Yeshua che entrava nella città santa a dorso della mula. Le urla festanti, le braccia alzate, i rami di palma, i bambini che correvano colmi d’energia. I soldati romani erano quelli più tesi, riempivano di sguardi colmi di biasimo e di parole della loro lingua bastarda i nostri confratelli in Abraham. La polvere che si alzava per i piedi che pestavano la terra, i colpi di tosse dei vecchi e gli scaracchi, le urla lamentose delle madri nei confronti dei figli che finivano nella calca e le loro lingue vibranti a sottolineare l’eccezionalità del gesto di quell’uomo. E tutti a salutarlo con le palme.
Lo sapevano tutti, lo sapevamo tutti chi fosse. O almeno, così pensavo. Yeshua, il figlio del falegname, ormai lontano dalla sua casa; Yeshua, un figlio dell’uomo, come gli piaceva presentarsi; Yeshua, il Messiah, come pensavano i più tra noi. Ecco un re, mi aveva detto in quel momento Yehudàh, vedendolo entrare così a Yerushalaim, “ecco un re per tutti!”. Ma non c’era gioia sul suo volto. Le sue labbra tracciavano un’amarezza che non compresi. La comprensione sarebbe giunta, ma non in quel momento. Mi parve solo un enigma in più, un enigma che seguiva quell’uomo che mi aveva affascinato fin dall’inizio.
E anche adesso, che eravamo seduti attorno alla tavola e avevamo mangiato assieme, l’enigma Yeshua si frappose ancora una volta tra me e la mia serenità. Infatti, mentre era più che evidente di come la tensione non si fosse ancora sciolta – uno strano silenzio riempiva lo spazio tra noi -, lui si alzò attirando i nostri sguardi e iniziò a spogliarsi. Io lo guardavo con esasperazione. Cosa faceva, adesso? Fino a che punto doveva arrivare, prima di rendersi conto che così non andava, che stava costruendo un sentiero di passi falsi? Forse credeva che lo capissimo, forse si era convinto che fossimo al passo con le sue trovate… ma così non era. E adesso, perché si stava spogliando della veste? Un re dev’essere svestito da un servo, non far da sé.
Poi prese l’asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Rimasi allibito. Ma quale rito stava compiendo? Guardai gli altri. Tra loro, soltanto uno, Yehochanan, aveva occhi ammirati. Gli altri, invece, erano sconvolti per lo meno quanto me. Io iniziai a scuotere la testa. Era un re, non uno schiavo. Che faceva? Eppure, prese l’acqua della brocca e la versò nel catino delle abluzioni e si avvicinò proprio a Yehochanan.
Gli lavò i piedi, uno dopo l’altro. Nessuno di noi diceva nulla? Non certo il Giovane, che se li faceva lavare con un piacere stupefatto sul volto. Che cosa aveva da sorridere? Yeshua si era preso un bambino con sé, e adesso gli lavava i piedi, forse pensando che il moccioso lo avrebbe riverito o, che ne so, che lo avrebbe bloccato, ma il ragazzino non fece nulla del genere. Perfino suo fratello Jakób era smarrito, incapace di intervenire.
D’accordo, lo avrei fatto io! Quando perciò si avvicinò a me ed ebbe posato il catino di fronte ai miei piedi, io mi abbassai per afferrargli le braccia e bloccarlo. “Signore, tu lavi i piedi a me?”
Sul suo volto, un’impassibilità insopportabile. Intelligenza nei suoi occhi, ma non tradì la minima espressione, né infastidita, né divertita, né folle… Che pensava? “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci”, mi disse. Ed era vero, assolutamente! Una breve inflessione delle sopracciglia, socchiuse gli occhi e li riaprì subito dopo. “Lo capirai dopo”.
“Tu non mi laverai i piedi, né ora né mai!” Forse il tono fu burbero, forse le parole uscirono da sole, ma non rimasero l’unica reazione. Qualche altro fratello muoveva il capo per accennare conferma. Non ero l’unico a pensarla così, ma parlavo per tutti. Ora come altre volte.
Il volto di Yeshua si ammorbidì e mi fece un sorriso. C’era, tuttavia, del rammarico, in quel sorriso, come di chi fa un dono senza essere compreso. “Kepha”, mi disse, “se non ti laverò, non avrai parte con me”.
Io, escluso dal suo regno? Ma che regno era, se lui era il servo? Lo avevamo seguito come un re, pensavo dovesse confermare ciò che la gente gli aveva tributato: onore, gloria, canti. Ma lui odiava la folla, lui faceva sempre di tutto per allontanarsene. Preferiva riuscire a parlare al cuore di pochi, piuttosto che alle brame di molti. Avevo pensato, perciò, che sarebbe diventato il Re del nostro Regno, in cui, in pochi, saremmo stati beati sulla terra. Adesso, però, si comportava in modo completamente diverso. Faceva il servo! Come avrei fatto a vivere lontano da lui, ora che mi aveva affascinato, mi aveva fatto abbandonare il mio lavoro, e mia moglie e i miei figli erano costretti a sostituirmi per riuscire a portare cibo in tavola? Dopo avermi mostrato il suo volto splendente, come avrei fatto a tornare alla mia vita di prima, se lui mi avesse escluso dal suo regno?
Non ci capivo più nulla. Poco avevo capito prima, ancor meno capivo adesso. “Signore, non solo i miei piedi”, gli dissi allora, “ma anche le mani e il capo”. Gli mostrai le braccia, le mani aperte verso il cielo, abbassai la testa, e mentre aspettavo che mi bagnasse, come si faceva a chi voleva essere purificato, vi furono attimi di silenzio.
Rispose, Yeshua, con un tono quasi divertito. “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro”. Mi sorrideva. Mi sentii stupido, abbassai le braccia con uno scatto e mi venne istintivo guardare gli altri. Che pensavano della mia trovata? Mi ero mostrato così sciocco… “E voi siete puri”, continuò. “Ma non tutti”.
Una stoccata. Detta quasi tra i denti, mentre mi versava l’acqua sui piedi, quella frase era stata udita da tutti? Forse me l’ero immaginata? Non tutti eravamo puri… a chi si riferiva? Forse diceva di me? Forse mi ero illuso così tanto, che in realtà, alla fine, sarei stato escluso dal regno? Forse, forse e ancora forse.
Voi siete puri, ma non tutti.
Signore, avrei voluto dirgli, fai che non sia io talmente impuro, da non poter entrare nel tuo regno. Fai che questa sorte tocchi a qualcun altro. Rendimi più puro degli altri. Mostra la tua preferenza nei miei confronti.
Rimasi in quei pensieri fino a quando non ebbe finito, ma anche quando ci spiegò che cosa ci aveva fatto, che ci saremmo dovuti lavare i piedi gli uni gli altri come aveva fatto lui, che era Signore e Maestro, io non compresi. Continuai a sentirmi a parte, impuro tra gli impuri, incapace di capirlo.