Quando pensiamo alla parola “integrazione”, la nostra mente va con ogni probabilità agli immigrati di culture diverse che crediamo debbano integrarsi nella nostra cultura, divenirne parte integrante. Come lo zucchero che si scioglie nel caffè.
Tuttavia, se guardiamo al significato etimologico della parola, “integrare” deriva da “integro”, cioè intero, e il primo significato che salta all’occhio con il vocabolario è quello di “rendere completo”, “intero” o “perfetto”.
Cosa, perciò, o chi va reso intero, completo e perfetto? La prima risposta, che è quella che normalmente – soprattutto ai nostri giorni – i nostri cari concittadini danno è che sono “gli altri”, gli stranieri, che devono rendersi completi, giungendo ad assomigliare il più possibile alla società che li sta accogliendo. Ed è così che “integrazione” entra a far parte di un generico concetto di “accoglienza”, che sa più di assimilazione. Il corpo estraneo, che sarebbe l’immigrato, deve lasciarsi assorbire dalla nostra società. Se li accogliamo, dicono i più, devono diventare come noi.
Allora facciamoci una domanda: siamo sicuri che nell’integrazione, gli unici a integrarsi, cioè a dover divenire “completi”, siano loro, gli stranieri? O forse non dobbiamo anche noi integrarci a loro? Non è, forse, l’integrazione un concetto e un movimento che fa della reciprocità il suo punto di forza?
Quando si parla di integrazione, però, lo si fa normalmente nel senso di una fatica e di un ostacolo: come se mancasse la buona volontà da una parte o dall’altra affinché ciò avvenga. La fatica, certo, devono farla le persone che si vogliono integrare, ma deve farla anche chi accoglie, perché a divenire completa nell’integrazione non è solo una parte, ma l’insieme della società. E non sto parlando dello “Stato” o di chissà quale organo statale, ma di noi.
La società che accoglie diviene differente, e non può pretendere di rimanere ancorata a un’immagine ormai inesistente – seppur è mai esistita in qualche epoca precedente – di società. Lo straniero si inserisce nella società che accoglie e la società che accoglie si deve inserire nella società che viene assieme allo straniero accolto. L’intero che deve completarsi è quello della nuova società, non dello straniero che deve modificare univocamente la sua tradizione e/o cultura personale/familiare.
Fino a quando saremo convinti che la nostra società sia un cristallo sempre uguale, potrà brillare quanto vogliamo, ma sarà destinata a rimanere in un museo. Se invece vogliamo che vada nel mondo, deve prima tornare a imparare ad accogliere il mondo. Perché una volta sapevamo farlo, quando non avevamo nulla per cui temere: un tempo eravamo poveri e non c’era timore che qualcuno ci portasse via ciò che i nostri padri e nonni si sono guadagnati con fatica. Oggi, che si ha tanto, si teme chiunque e qualunque cosa.
L’integrazione è la possibilità di tornare a uno sguardo libero e positivo sul mondo, per diventare noi più completi di prima.