E tu, quale genere sei?

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Andersen, scrittore di fiabe… per bambini o per adulti?

Scrivere rientrando in un genere, o scrivere e poi accorgersi di essere rientrati in un genere?

Quando iniziai a scrivere, mi resi conto di produrre racconti e narrazioni di tipo fantastico e avventuroso. Mi ero formato su letture di Salgari, Tolkien, Crichton e Asimov, motivo per cui volevo emularli, riuscire a produrre qualcosa che fosse anche solo lontanamente simile a ciò che quelle menti geniali riuscivano a ricostruire. Volevo imitare il loro stile, volevo riprodurre le loro atmosfere, volevo che il lettore che avesse letto le mie storie, potesse meravigliarsi come io avevo fatto a mia volta.

Poco alla volta, poi, il mio stile si raffinò (ci vollero anni). Ancora attorno ai 25 anni avevo una scrittura fortemente debitrice dei grandi autori che amavo. Eppure, qualcosa iniziava a scattare dentro di me. Mi si delineavano le linee principali delle mie storie, simboli e archetipi emergevano su altri elementi che, invece, restavano più nell’ombra. Mi resi conto che, pur volendolo, non riuscivo a raccontare tutto ciò che destava il mio interesse. In modo particolare, mainstream. Storie di vita vissuta, normali, quotidiane, erano ben al di là della mia prospettiva, e non perché non mi ci tentassi; piuttosto, qualunque storia mettevo su carta, aveva determinate caratteristiche che rientravano nel grande ambito del fantastico. Talvolta, poi, si trattava di fantascienza, talaltra di avventura pseudo-scientifica e, infine, di fantasy.

Riconoscendo queste caratteristiche tra le altre, mi convinsi di essere un autore di genere. Anche quando iniziai a scrivere Storia di Geshwa Olers, il primo romanzo (di 3500 pagine) frutto unicamente della mia esperienza di vita e perciò del tutto originale rispetto a qualunque stilema di genere, lo etichettai come fantasy. Quindi passai all’horror, e per i primi due anni rimasi nella convinzione di scrivere horror.

Poco alla volta, però, iniziai a rendermi conto che ciò che accomunava le mie storie era qualcos’altro: la storia delle persone. Vicende straordinarie che accadevano a persone assolutamente normali (per dirla alla Spielberg) e che, inoltre, reagivano in modo – per dire così – apocalittico. Il mainstream continuava a non essere nelle mie corde, il grande ambito del fantastico proseguiva a lambire in maniera significativa le mie narrazioni, ma per la prima volta mi resi conto di non rientrare in alcun genere.

Storia di Geshwa Olers non è un fantasy, e anche l’etichetta di storia fantastica gli sta stretta: è un romanzo che racconta la vita di un ragazzo nel suo tentativo di vivere il rapporto con Dio nel modo in cui tutti si aspettano. La sorpresa, ovviamente, sta nel finale.  La ragazza della tempesta e Veniva dal mare non sono romance, ma storie dell’incontro tra un uomo e una donna che non hanno nulla a che fare con i cliché del rosa: ne condividono di più con il thriller. Commento d’autore, Le sette case, Codice infranto e Trasmissione inversa non sono horror, ma declinazioni del rapporto dei loro protagonisti con la realtà che essi vivono: la realtà di uno scrittore divenuto improvvisamente famoso, la realtà di sette cittadini di Verulengo nel loro legame con sette luoghi della cittadina in cui vivono, la realtà di un tessuto educativo ormai talmente disgregato da nascondere mostri e, infine, la realtà di due amanti delle narrazioni alternative che scoprono di trovarsi davvero in una delle peggiori narrazioni di un maestro dell’horror, Lovecraft.

Insomma, pensavo di essere un autore di genere. Invece, sono uno scrittore. Punto. E voi?

 


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