
Il post sulla questione “contenuti” nel fantasy ha suscitato un bel dibattito, che mi piace riprendere e sviluppare, facendo pure cenno agli autori che ne hanno preso parte.
Ciò che mi colpisce sempre nei casi in cui si presenta un argomento simile è che sottolineare la necessità dei contenuti nelle storie – di buoni contenuti, ovviamente – suscita un certo tipo di reazione, soprattutto in chi ha vissuto vicende positive (poche) e negative (di più) nel mondo dell’editoria, in modo particolare con riferimento alle proprie esperienze con gli editori. Si ripropone troppo spesso una diatriba che appare irrisolvibile, ovvero se sia meglio scrivere con un occhio alla pubblicazione, “sporcandosi”, per così dire, con il marketing già durante la stesura o se sia meglio scrivere prestando attenzione soltanto a ciò che rappresenta pienamente la visione dell’autore, rischiando di assumere un atteggiamento a metà strada tra lo snobismo e l’idealismo.
In realtà, non ho alcuna intenzione di porre in essere un simile contrasto, e ciò che sostenevo nel post precedente non era l’interrogativo se sia meglio scrivere per il mercato o per la qualità. Una tale contrapposizione non fa nemmeno parte del mio modo di pensare: infatti sono convinto che, prima o poi, ciò che è di qualità si creerà la sua strada, sempre ammesso che – però – l’autore sia tanto resistente da persistere nel suo intento.
Molto più semplicemente, io ponevo l’attenzione sull’atto dello scrivere in sé, isolandolo da tutto il resto. Se facciamo una simile operazione a ritroso, ovvero applicandola a un romanzo pubblicato, abbiamo buone probabilità di riconoscere se quel romanzo sia stato scritto nel tentativo di allinearsi o se abbia “semplicemente” trovato la sua buona strada perché buono era il suo contenuto (e, ovviamente, la sua forma). Facciamo astrazione, per favore, pensiamo solo allo scrivere in sé. Se ci proviamo, ci rendiamo conto di quanti romanzi si scrivano solo per ottemperare a un proprio desiderio di sfondare (sulla scia dei successi di mercato) o per voglia di mostrarsi. Non accade solo con il fantasy, però nel fantasy è particolarmente evidente.
Ma è questo ciò che noi chiamiamo scrittura, e magari con la S maiuscola?
Al termine di questa breve ulteriore riflessione, vorrei sottolineare alcuni pensieri che ho molto apprezzato da parte di un paio di scrittori che stimo. Marco Davide (qui la sua pagina FB) sottolinea come gli editori “sempre più spesso (in alcuni casi quasi esclusivamente) cercano con affanno di supportate chi replica (nei casi peggiori scimmiotta) formule che hanno dimostrato di poter riscuotere successo” e che, “senza un editore che decida seriamente di puntarci su, le medesime storie hanno ben poche possibilità di raggiungere i lettori all’altro capo del filo”.
Sono totalmente d’accordo, ma questo è, come dicevo, un altro problema. E mi domando quanto esso debba ricadere sulle nostre spalle d’autori che cercano di fare del loro meglio. Penso che in futuro dedicherò a questo interrogativo un’altra serie di post. Un’autrice che di recente si è data anche al regency, Antonia Romagnoli (qui la sua pagina FB) dice, giustamente, che si tratta del “solito gatto che si morde la coda: gli autori propongono ciò che pensano piacere a pubblico (e agli editori, alla fine tutti cerchiamo di arrivare lì). L’originalità paga? Qui in Italia, a quanto pare, lo fa in modo relativo”. Circa il fantasy, inoltre: “È un genere che si cerca più negli scaffali delle librerie e lì a quanto vedo ormai ci sono quasi più locandine di film che copertine vecchio stile. Uno, due autori (inglesi, americani) riescono a sfondare con un libro originale, magari con contenuti validi. Il resto è come la coda della cometa”.
Chiarissima, come sempre, ed efficace. Pare che siamo del tutto condannati alla ripetizione di questo stilema.
se la storia manca, beh! forse è meglio non scrivere
Concordo.
Detta così sembra che la pubblicazione sia sempre meno una scelta adatta alle esigenze di lettori e autori, eppure è ancora una prospettiva decisamente affascinante… una bella cerca del Graal
In realtà continua a essere un’ottima opzione, forse la migliore, ma da parte dell’autore dev’essere pienamente oculata.
Capisco. Che sofferenza però!
Però fa parte del cammino di uno scrittore. Sofferenza compresa 🙂
Bèh, in effetti è anche più giusto così, in fin dei conti =P
Più che essere giusto, è inevitabile. Non è che voglia dire che uno scrittore deve soffrire. Dico solo che chi fa lo scrittore con il desiderio di fare arte (il che vuol dire semplicemente: fare lo scrittore per raccontare la vita), non può che accogliere la sofferenza come parte del proprio percorso. Assieme alle gioie e a tutto il resto.