Il sole sulle bianche torri – prime due pagine

Un regalo per tutti coloro che stanno aspettando il VII volume di Storia di Geshwa Olers, Il sole sulle bianche torri. Arriverà, nel giro di poco. Nel frattempo, eccovi le prime due cartelle.

Capitolo 1 – Sul terremoto

terremoto-ferrara-1570Molti uomini altrimenti destinati a rimanere perfetti sconosciuti consegnarono il loro nome alla storia in seguito a ciò che accadde il 5 Kuvon del 41 d.I. Ecco, tra tutti i documenti salvati dalla catastrofe, quelli che permettono di capire la portata di ciò che accadde su Stedon.

Lettera di Barlon al padre, scritta il 5 Thevan e recapitata l’8 Thevan del 41 d. I.

Quando la terra iniziò a tremare, eravamo intenti ad attaccare i nostri ornamenti alle colonne del portico di casa. Gavion, Alanta e Opleria si inseguivano tra gli alberi del giardino e la più piccola si nascondeva di tanto in tanto dietro il tronco del grande ulivo del nonno. Sai bene come avesse avuto il tempo di diventare ampio e robusto in soli quarant’anni, quell’albero, e nessuno avrebbe mai potuto prevedere che tanta paziente attesa si sarebbe trasformata nella tragedia della nostra vita. In un solo tremendo minuto.

Le risate di Opleria quando veniva scovata da Alanta, gli schiaffi che volavano all’indirizzo di Gavion quando lui, così più alto della sorella maggiore, piombava su di loro spaventandole! L’aria era piena di leggera e folle felicità. Forse solo Alanta era consapevole di cosa significasse per Grodestà la vittoria ormai certa per tutti, o per lo meno mi piace crederlo. Cosa si può comprendere del mondo a nove anni? Ha sempre mostrato una grande intelligenza, quella bambina. Con il senno di poi, ho pensato più volte che forse avremmo dovuto lasciarla libera di giocare come e quando voleva, senza caricarla di tristezza con il nostro obbligo di frequentare l’Istruzione Poetica in anticipo. Lei aveva preso l’impegno di buona lena, com’era solita fare, proprio come una brava bambina, ricordi? Ci fosse stato donato di scrutare il futuro, avremmo agito diversamente, caro padre.

Lasciami sfogare, ché non sono ancora capace di starmene zitto. Chi non vorrebbe il meglio per i propri figli? Crediamo di fare il loro bene, ma se solo potessimo vedere il futuro…

Ricordo che Leana, con quel cerchietto di magivetro che le regalasti al suo ultimo compleanno, un dono prezioso per mia moglie, capace di farsi oro alla luce di Grodexorian e argento al barlume di Anashorian, lei e io eravamo saliti assieme sulla scala per legare il festone più lungo. Fu in quel momento che traballammo entrambi, e ci appendemmo l’uno all’altra con la reciproca certezza che fosse l’altro a provocare il dondolio. Ricordo il suo sguardo, quello spavento immediato ma pronto a scomparire dai suoi occhi, convinti fosse un mio scherzo. Ricordo anche il modo in cui quella rassicurazione che sperava di trovare in me non fu confermata, anzi, di come venisse cancellata subito dallo sgomento che vide accrescersi nei miei occhi quando il dondolio aumentò, rendendoci instabili.

C’era stato un attimo – molto lungo nel mio pensiero – in cui attorno a noi si era fatto un gran silenzio. Forse è stata solo la mia immaginazione, ma due invisibili mani robuste erano riuscite a isolarmi le orecchie dai rumori di Stedon e della città. Poi ci fu quel botto sordo, cupo, estremamente lontano. Mi resi conto della sua realtà solo quando Leana e io scivolammo giù dalla scala. Leana piombò su di me, ma il suo sguardo si diresse subito al giardino. I suoi occhi erano spalancati e il corpo reso felino da una tensione colma di spavento. Si alzò in piedi, non riusciva a star dritta, procedette comunque verso gli alberi. Perfino sdraiato sulle pietre alla base del colonnato, avevo l’impressione di poter ancora cadere da un momento all’altro. Quando sentii l’impalpabile polvere coprire il mio volto – era ovunque, quella polvere, non avevo mai visto nulla di simile – guardai in alto. Notai la crepa che si stava formando proprio sull’arco. Rotolai giù, appena in tempo per assistere all’apertura della crepa e al moltiplicarsi delle fenditure, come un fulmine che si stampa sulla roccia. L’intonaco esterno mi cadde addosso in un sol colpo, come un ampio e sottile grit-lah che si stacca dai chiodi che lo tengono ancorato, ma non mi fece male. Tentai di alzarmi. Solo allora mi accorsi che il mio cuore correva e che pensieri spaventati mi privavano della forza necessaria a star dritto.

Non riuscivo a concentrarmi, padre, non riuscivo a fermarmi un momento per cogliere quanto stava accadendo, se ci fosse ancora il terremoto o se fosse il mio corpo a venire meno dopo lo spavento. Non potevo mettere in fila pensieri sensati, tutte le preoccupazioni si accavallavano in quel preciso istante: la casa, il giardino, Leana, i bambini, gli animali nelle stalle, i vitigni… tutto era diventato importante, tutto era minacciato, ma nulla trovava una precedenza nella mia testa.

Feci del mio meglio per mantenere l’equilibrio. La terra ondeggiava come se fosse liquida, cadevo in continuazione, mi rialzavo e tentavo di individuare mia moglie attorno a me, o per lo meno uno dei bambini. Non riuscivo nemmeno a sentire le loro voci, c’era su tutto quel rombo che non cessava e mi ostruiva le orecchie, premute e impedite di sentire in maniera normale dall’aria che si era fatta solida.

Perché ti scrivo queste cose? Tu stesso sai cos’è successo, anche se eri a Cetilan, non lontano da qui. Ma te l’ho detto, ho bisogno di sfogarmi, altrimenti non riesco a sopravvivere.

Quando mi sembrava fossero passati molti minuti, il dondolio della terra diminuì e riuscii finalmente a stare in piedi, ricoperto di polvere e bianco come la muffa raggiunsi il giardino. Molti degli alberi dondolavano ancora, la maggior parte sradicati e caduti su un fianco, alcuni si appoggiavano l’uno sull’altro. L’ulivo del nonno era tutto a terra, padre. L’ulivo del nonno! Era giù e Leana si muoveva attorno a esso, non capivo se inciampata o solo inginocchiata. Le orecchie si aprirono e sentii che gridava. Alzava gli occhi al cielo e urlava come una forsennata, senza muoversi di lì. Tornò improvvisa l’impressione che fosse rimasta incastrata dalle gambe. La raggiunsi di corsa, sbandando per il tremore che aveva ripreso a scuotere la terra, l’afferrai per un braccio. Lei si gettò a terra di lato, il suo grido così acuto da forarmi i timpani. Le sue gambe erano libere, raccolte sotto di lei, non aveva nulla di incastrato, era solo inginocchiata. Eppure, qualcosa spuntava dal tronco.

Era Alanta, papà. I suoi occhi erano aperti. Come posso dimenticarmi di quell’immagine? È scolpita nelle viscere… I suoi occhi fissavano il cielo, la sua bocca piccolina era semiaperta, quasi in un sorriso colmo di stupore, come se volesse dire qualcosa… ma non stava dicendo nulla. Alanta era immobile, non parlava, nulla diceva né faceva, nulla!

Leana si gettò di nuovo su di lei con un furore mai visto, la tirò, la parte superiore del busto della piccolina parve allungarsi, diede l’impressione di liberarsi dal grosso tronco rugoso, ma nient’altro si muoveva.

Il terremoto era cessato. L’albero era enorme e non si muoveva. Alanta era piccolina, però, ma nemmeno lei faceva alcuna mossa, bloccata in quell’eterno sguardo rivolto a un cielo che non l’ha risparmiata. Leana ondeggiava su di lei, e la vedo tutt’ora così, un mare eterno in disperata tempesta. Io mi sento ancora fermo, bloccato dal pensiero che mi prese in quel momento.

Dov’erano gli altri bambini? Dov’erano Gavion e Opleria?

I miei occhi attraversarono di colpo il giardino. Mi è bastato poco più di un attimo per rendermi conto del pensiero… In casa, mi dissi, sono corsi in casa, hanno cercato riparo in casa!

In quel momento il mio cervello si staccò da tutto. Mi accorsi di quanta polvere ricoprisse Leana e me. Mi guardai le gambe, le spazzolai, frastornato e convinto che fosse necessario. Non volevo alzare gli occhi, mi colpii le gambe una volta e poi un’altra, scossi la maglia, tossii, feci di tutto sempre più agitato, fino a tremare in modo incontrollabile. Fu in quel modo disprezzabile che trovai la forza di sollevare la testa e guardare la casa.

Era tutta giù. Non c’era più pietra su pietra.

Papà, come potrei starmene zitto? Anche a distanza di tempo non riesco a smettere, il pianto mi sorprende come una guardia che non vuole lasciarmi in pace. Ci sarà mai nulla che Eus potrà fare per ripagarmi… per ripagarci del male con cui ci ha percossi? Io non accetterò mai niente.

Eus ci ha abbandonati ancora una volta, e lo ha fatto dopo essersi portato via i nostri bambini.


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