In questa serie di post, vorrei affrontare la questione che si pongono molti che iniziano a scrivere: come si diventa scrittori? Non ho la risposta in tasca, ma ho dalla mia parte l’esperienza. Perciò cercherò di spiegare quale è stato il mio percorso. Mi è già capitato di notare che si tratta di un percorso simile a quello che più o meno ogni scrittore deve affrontare. Quindi cominciamo.
Fase 1 – L’inizio
Per quanto mi riguarda, la fase 1 non inizia con il proposito di diventare scrittori, ma con un altro meccanismo, che nasce in maniera più o meno spontanea. Questo meccanismo è mosso dal “desiderio di raccontare una storia”. Nel mio caso, si trattava, quando avevo 13 anni, della storia impossibile di un amore tra un carcerato e una ragazza libera. Non chiedetemi da dove fosse venuta fuori una simile idea, non saprei dirvelo. Tuttavia, ciò che è significativo è che si tratta di una storia “minimale”, cioè che possiede tutti gli elementi che un racconto deve possedere per poter avvincere: uno o due personaggi colmi di un desiderio, un impedimento sul percorso della sua soddisfazione, un elemento tragico. Certo, mancava ancora molto: per esempio mancava un inizio e una fine. La storia di quei due innamorati era soltanto una “parte centrale” e perciò, in realtà, non c’era la storia.
Da quel giorno, però, mi resi conto di poter scrivere racconti, di poter narrare qualcosa, perché possedevo diversi strumenti a mia disposizione:
- la fantasia
- una grammatica sufficiente
- il desiderio di esprimere qualcosa
- carta, penna e pazienza (che sono come i materiali da utilizzare per la scrittura: la pazienza è uno di essi).
Dopo questo primo tentativo, provai il desiderio, inoltre, di sondare altre modalità espressive, la poesia in primis. Scrissi centinaia di poesie, riempii quaderni, con l’unico scopo di studiare la possibilità di piegare la parola alle mie volontà, per arrivare a dire ciò che provavo interiormente. Con il racconto del mio percorso mi fermo qui, perché vorrei, prima di proseguire, analizzare questi quattro strumenti che ho indicato.
La fantasia. Da dove nasce? Non saprei dirlo, esattamente, tuttavia so indicare cosa mi aiutò a svilupparla. Si trattò precisamente di due elementi:
- la curiosità: leggevo qualunque cosa e, soprattutto, qualunque genere di manuale e di enciclopedia. In casa di mio padre ce n’erano alcune, dalle più diffuse (come il Conoscere) a quelle più rare (come l’Enciclopedia Universale di Cesare Cantù, del XIX secolo). Inoltre, molti libri a cavallo tra XVIII e XX secolo dalla foggia piuttosto inusuale (per lo meno per un bambino di nove-dieci anni), come potevano essere un’enciclopedia giuridica del 1700, un vocabolario siculo-italiano del 1800, libercoli di inizio Novecento con testi in greco e latino che usava mio padre al Liceo, libri illustrati a cavallo tra XIX e XX secolo, carte geografiche più o meno vecchie, strani manuali che elencavano dati statistici relativi a ogni cosa, riviste di ogni decennio del XX secolo… La mia curiosità veniva soddisfatta e nutrita da questa grande libreria che avevo a disposizione fin dall’infanzia;
- libri a pagine bianche: per il lavoro che mio padre faceva, capitava che, di tanto in tanto, mi portasse in regalo dei libroni rilegati composti interamente di pagine bianche. Io mi divertivo a riempirli di dati inventati, nel tentativo di riprodurre nuove enciclopedie fantasiose, di creare situazioni inesistenti e imitare i famosi codici leonardeschi.
Questi due elementi, mescolati per vie che non saprei dire, portarono alla creazione di una fontana che zampilla abbondantemente da oltre trent’anni. Mi auguro che non si prosciughi mai. Per chi, inoltre, si chiedesse dove poter reperire tanti libri, magari perché non li ha in casa (come accade spesso nella famiglia media italiana), ci sono le biblioteche rionali, comunali, della circoscrizione. Andate a scoprirle, perché sono un formidabile strumento a disposizione, per di più gratuito.
Una grammatica sufficiente. Avendo a disposizione una vasta biblioteca casalinga, potei leggere sempre con abbondanza. Ricordo che alle elementari ero uno dei più bravi nella lettura, fin dai primi anni. Dove i miei compagni arrancavano, io mi divertivo. La lettura è una sorta di scanning+acquisizione dati, e la nostra mente ingloba e ingloba senza posa, senza che ce ne rendiamo conto. Quando, poi, ci poniamo alla scrittura, le parole arrivano, la grammatica si presenta nella sua funzionalità e senza che sia stato necessario fare chissà quali studi. Leggere moltissimo, un grande segreto. Siate lettori forti, ma non da una decina di libri l’anno, bensì da una cinquantina almeno.
Il desiderio di esprimere qualcosa. Questo aspetto corrisponde al famoso interrogativo che di solito vien posto (in modo un poco assurdo e banale) agli scrittori: “Per chi scrive, lei?” La risposta ovvia è: “per essere letto, perciò per i lettori”, ma molto spesso si sente dire, invece: “Per me stesso”. Ora, questo è vero. Ogni scrittore scrive innanzitutto per se stesso, non perché voglia soddisfare un proprio bisogno (altra frase che spesso si sente ripetere da molti, scrittori o no), ma perché mentre scrive, in qualche modo lo scrittore si sdoppia, e dentro di lui nasce un lettore pronto a giudicare ed emendare ciò che il se stesso scrittore sta scrivendo. Tuttavia, è pur vero che nella prima fase della scrittura, quando uno inizia, la scrittura è solitamente sospinta dal desiderio di esprimere un proprio stato d’animo, una propria visione del mondo, un proprio desiderio fine a se stesso. La scrittura degli inizi è quasi sempre un’espressione del proprio ego, e non uno sguardo profondo sulla realtà. Che le due cose coincidano, poi, è pura casualità che, con il proseguire di questa attività, diviene mestiere. Attenzione: la scrittura non può mai essere solamente sfogo, perché la scrittura è per sua natura un tentativo di equilibrio tra forze differenti e contrapposte: l’emotività e la razionalità organizzativa. Quando scrivo, io sto bene, non perché sto sfogando un’emozione o sto soddisfacendo un bisogno (il famigerato quanto fantasioso “bisogno di esprimersi”), ma perché metto in comunicazione la mia parte emotiva con la mia parte razionale, e ritrovo l’equilibrio interiore.
Carta, penna e pazienza. Quando iniziai, lo strumento di scrittura più evoluto era, ovviamente, la macchina da scrivere. Tuttavia, per le poesie ho quasi sempre utilizzato la carta e la penna, se non le matite, mentre per i racconti la macchina da scrivere, e poi i computer. C’è, però, una differenza tra un mezzo di scrittura e l’altro, e guardate che si tratta di qualcosa di molto importante. Il mio consiglio è di provarli tutti. Iniziate scrivendo a mano, poi passate alla macchina da scrivere, infine al computer o al dettato vocale (come faccio negli ultimi anni, soprattutto per la saggistica). Ogni modo è a sé, ha delle particolarità che rendono più ricca la scrittura, che permettono di cogliere aspetti della propria voce e della propria espressività che gli altri mezzi invece tendono a nascondere. Dedicate molti mesi a ciascuna modalità: vedrete che ne trarrete un grande giovamento e che scoprirete grandi cose a vantaggio del vostro modo di esprimervi. La pazienza è uno strumento indispensabile: chi scrive, se ne sta da solo (ed è bene starsene da soli, così da gestire la propria solitudine e metterla a frutto nella scrittura) e con grande pazienza, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, giunge da qualche parte. La pazienza è tanto importante quanto la fantasia.
Prima di lasciarci per la prossima puntata di questa serie, un’ulteriore domanda:
quanto tempo può durare questa fase iniziale? Non lo so, ciascuno di noi ha tempi interiori e personali diversi
ed è sollecitato in modo diverso dalle cose e dagli eventi. Per quel che riguarda me, posso dire che la mia fase iniziale è cominciata più o meno attorno ai nove-dieci anni (con i famosi libri a pagine bianche), è passata attraverso i miei racconti iniziali redatti con la macchina da scrivere e le poesie vergate a mano sui quaderni delle scuole medie, ed è giunta alla soglia dei ventidue anni, una volta approdato all’università. Una dozzina d’anni, perciò, dopo i quali accadde che…
…ve lo racconterò nel prossimo post.
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