Il lavoro nobilita l’uomo. Siamo tutti d’accordo, o quasi. Qualcuno si accontenta di lasciarsi nobilitare dai soldi guadagnati tramite un non-lavoro, che è la rendita finanziaria. Sul fatto che ciascuno dovrebbe avere un lavoro, però, siamo tutti d’accordo.
Cosa mai ci sarà da dire sul concetto di lavoro, che già non sia stato detto? Infatti, il mio intento è quello di scoprire le caratteristiche del termine e i suoi possibili significati a partire dall’etimologia. Poi, si vedrà di fare qualche ulteriore riflessione che possa risultare utile.
Il primo significato che risalta è quello della fatica: la parola “lavoro” deriva dal latino làbor, che significa proprio fatica, da cui laborare, ovverosia “durar fatica”.
La radice “labh”, poi, pare avere due significati: uno è concreto, pratico, ed è quello di “afferrare”, un altro è figurato, cioè “volgere il desiderio, volgere la volontà verso qualcosa”, che sarebbe a dire “agognare”, “voler raggiungere”.
Questa radice, “labh”, pare essere stata originariamente “rabh” (a livello fonologico succede che la “l” si trasformi in “r” e viceversa), che si ritrova, per esempio, nel sanscrito, lingua antichissima, che conosce la parola “ràbh-as”, che è un movimento violento dell’animo o del corpo, un impeto, una forza.
Ecco che salta fuori con chiarezza una realtà che tutti conosciamo: che il lavoro sia fatica, non si fa fatica a concepirlo (scusate il gioco di parole), poiché dal terzo o quarto giorno in cui si lavora, già siamo in grado di lamentarci di ciò che facciamo e della stanchezza che ci prende; ma che il lavoro sia una fatica dovuta al fatto che vogliamo piegare in modo più o meno deciso, più o meno violento, ma certamente forzoso, ebbene, che vogliamo piegare la realtà alla nostra “idea”, al nostro “obiettivo”, è un dato che conosciamo dentro di noi e che, tuttavia, non diciamo mai a voce alta.
Il lavoro è la fatica che facciamo nel trasformare il mondo a nostra immagine.
Che immagine dell’uomo salta fuori da questo significato del lavoro, che nessuno di noi può negare? Ogni giorno che ci rechiamo sul luogo del nostro (delitto? No, ma del nostro) lavoro, sappiamo che dovremo faticare per fare andare le cose lisce come l’olio, ben sapendo che lisce come l’olio non ci andranno mai. Il lavoro è una fatica che, lo sappiamo in anticipo, conoscerà alcuni, pochi successi e molti scorni e insuccessi.
L’insuccesso nell’ambito del nostro lavoro è legato all’attrito che la realtà provoca con i nostri desideri. Anche il lavoro più bello e più rispondente alle nostre aspettative, ci presenterà sempre un conto un poco salato: il salario della nostra fatica e della fatica altrui. E fino a quando cercheremo di raddrizzare la realtà per farla diventare secondo la nostra immagine, non ci renderemo mai conto che, in verità, stiamo cercando di storcerla per farla diventare storta quanto storti siamo noi.
Forse, la fatica nel lavoro serve innanzitutto a noi, per imparare un dato importante: la realtà è sempre al di là del nostro naso, sebbene di quella realtà noi ci facciamo un’idea ben precisa. Il lavoro è uno dei modi migliori che abbiamo per cogliere ciò che c’è al di là del nostro naso, ciò che ci tiene con i piedi per terra.
Questo è, forse, il principale motivo per cui il lavoro nobilita l’uomo: perché lo invita a essere sempre di più se stesso, e nel frattempo, la realtà viene forgiata a immagine nostra e di tutti.
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