
Abbiamo compreso come la memoria sia un fenomeno straordinario della nostra mente, un’espressione altissima della nostra anima, che ci permette di cogliere un segno del passaggio del divino nella nostra esistenza: la nostalgia della felicità.
In che modo tutto ciò che abbiamo detto può essere fatto fruttare? Che senso ha parlare della memoria e della felicità massima, se poi ci ritroviamo in continuazione estromessi dal percorso che ci può ricongiungere con questa felicità che abbiamo conosciuto (in un tempo non-tempo e in un luogo non-luogo che è Dio) e cui aneliamo di continuo? La risposta è: la narrazione. Vi spiego cosa intendo.
Ogni momento di vita della nostra coscienza è fatto di narrazione: fin da quando nasciamo, l’esperienza dell’Essere Umano si concretizza in una serie di narrazioni, cioè di esperienze fatte di nostre percezioni, di nostri modi di vedere le cose, che teniamo unite secondo una modalità che corrisponde al nostro essere più profondo, e che torna utile per affrontare la nostra esistenza in questo mondo, tra gli altri esseri umani. Senza nostre narrazioni del mondo, della nostra vita e dell’ambito del divino, nessuno di noi potrebbe vivere.
Ciò avviene fin da quando il bambino è concepito, sulla base delle relazioni che egli vive. Innanzitutto nel rapporto tra il feto e la madre: sappiamo bene come assorba le emozioni di chi lo genera, i suoni che giungono dall’esterno, e via dicendo. Immaginate, poi, quando nasce: tutto ciò che accade da quel momento lo spinge a reagire in un modo o nell’altro.
Quelle reazioni non sono casuali, ma sono specifiche della persona, indicano il suo modo specifico di relazionarsi con tutto ciò che lo circonda, ma, prima di tutto, con se stesso.
Perché la persona si forma sempre di più accumulando narrazione su narrazione di ciò che sta vivendo a partire dal suo punto di vista. Questo ci permette di capire come, quando parlo di narrazioni, non intendo una storiella nella quale possiamo fare a meno di credere con facilità, bensì una storia reale che è a fondamento del nostro modo di pensarci. Di narrazione in narrazione, andando a ritroso potremmo risalire fino alla nostra nascita, per scoprire che – per l’appunto, come diceva Sant’Agostino – c’è qualcosa che noi ricordiamo e che giunge da prima di noi: una felicità suprema, quella che abbiamo chiamato con la maiuscola, Felicità.
L’esperienza dell’Essere Umano è fatta di un’unica sostanza: di una narrazione nella quale ci formiamo spinti da una dinamica emotivo-affettiva.
La Felicità è Dio, dicevamo. Dio è ciò da cui ci siamo distaccati al momento del nostro concepimento, perché prima ne facevamo totalmente parte. L’unione perfetta con Dio (che da un punto di vista simbolico è rappresentata dalla fusione con la madre) è ciò cui aneliamo per tutta la nostra vita, perché abbiamo memoria della Sua presenza, pur non potendo raccontarla… perché era prima della nostra nascita.
Ora: le narrazioni della nostra vita che noi creiamo possono impedirci di cogliere questo collegamento originario, perché distolgono in continuazione la direzione del nostro sguardo.
Dicevo che le narrazioni che noi creiamo di noi stessi sono sospinte – o, per meglio dire, sostenute – da una dinamica emotivo-affettiva: è proprio quest’affetto e quelle emozioni che inseriamo nelle narrazioni a noi care ciò che ci impedisce di liberarcene facilmente. E se tali narrazioni sono negative, difficilmente riusciremo a guardare a ciò che è massimamente positivo, cioè la Presenza continua di Dio nella nostra vita, anche quando non ce ne rendiamo conto.
Ci sono alcune narrazioni che, fra tutte, ci possono rendere davvero difficili le cose. Iniziano il loro percorso proprio nell’infanzia e ve ne parlerò nel prossimo e ultimo post dedicato alla memoria.