Oggi voglio parlarvi di alcune personcine, che hanno passato la loro vita nell’anonimato o quasi, pur essendo votate all’arte, talvolta senza nemmeno saperlo, in alcuni casi sapendolo fin troppo: si tratta di Vivian Maier, di Emily Dickinson e di Gustav Mahler.
Vivian Maier: Nata a New York nel 1926 e morta a Chicago nel 2009, ricevette la passione per la fotografia da un’amica francese (come la madre), Jeanne Bertrand, ma tale passione rimase sempre un fatto privato. Passò alcuni anni dell’infanzia in Francia, poi tornò nel Bronx, quindi viaggiò facendo fotografie con una Rolleiflex professionale, inventando (o per lo meno anticipando) la “street photo”: riprendere soggetti in condizioni reali nell’ambiente in cui si trovano normalmente. Soprattutto, fece la bambinaia, per quarant’anni, lavoro che, pur non piacendole, sapeva fare bene. Ebbe sempre maggiori difficoltà economiche, fino a quando le sue casse di negativi fotografici, mai sviluppati, finirono in un garage, che fu messo all’asta. Lì le trovò nel 2007 un ragazzo di nome John Maloof, a due anni dalla morte della grande (e inconsapevole) artista. Da quel momento divenne famosa.
Emily Dickinson: Nata ad Amherst nel 1830, dove pure morì nel 1886, divenne poetessa probabilmente in seguito alla sua conversione al cristianesimo, come espressione di una fede fondata sull’immagine della lotta di Giacobbe con l’angelo. Fece parte del revival cristiano che, negli anni 40-50, si diffuse nell’occidente del Massachusetts, e più della metà delle sue poesie furono scritte durante la Guerra di Secessione Americana, facendone una delle più grandi poetesse di tutti i tempi. Peccato che all’età di 25 anni decise di estraniarsi da un mondo di cui non si sentiva parte, affermando che con l’immaginazione si potesse attingere a qualunque realtà. Dopo la sua morte, la sorella di Emily scoprì nella sua camera, ricucite con ago e filo e conservate in una scatola, 1775 poesie, solo 7 delle quali erano state pubblicate prima che passasse a miglior vita. Da quel momento iniziarono a pubblicare i volumi delle sue poesie e ottenne il successo – postumo – che si sarebbe meritato già in vita.
Gustav Mahler: Nato a Kaliště nel 1860 e morto a Vienna nel 1911, passò la sua vita a dirigere e rivoluzionare il mondo delle esecuzioni classiche, reintroducendo Mozart, interpretando in modo nuovo Beethoven e rendendo esemplari le messinscena di Wagner e altri. I suoi problemi furono di tre tipi: era estremamente apprezzato come direttore, sebbene abbia spesso vissuto contrasti con le orchestre a causa della sua esigenza e della loro incompetenza; poteva comporre solo in brevi periodi dell’anno, soprattutto in estate, quando si prendeva un paio di mesi di riposo; le sue opere – soprattutto sinfonie – furono quasi del tutto incomprese, spesso fischiate e osteggiate, se non maltrattate. Eppure, è oggi considerato uno dei più grandi compositori di tutti i tempi, parte di quella cupola della quale fanno parte Bach, Mozart, Beethoven e pochi altri. Senonché la sua musica cadde praticamente nel dimenticatoio dopo la sua morte, per essere riscoperta e compresa solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Non c’è che dire… un grandissimo successo postumo.
Il senso di questo post? Specialmente in questi ultimi dieci anni, tutti noi ci siamo abituati a pensare che fare arte – o essere attivi all’interno di un ambito artistico – sia un aspetto che dev’essere per forza riconosciuto massivamente. Responsabili soprattutto i social, dobbiamo essere conosciuti a tutti i costi e se non abbiamo il nostro famigerato quarto d’ora di celebrità, rischiamo di avere un crollo psicologico. È successo a me e di certo è successo a tutti voi.
Impariamo a occuparci di ciò che ci compete, che ne dite? Se ci consideriamo artisti, limitiamoci a far bene ciò che facciamo. Forse, prima o poi, qualcuno se ne accorgerà. Perché, vedete, il rischio di sbracciarsi per farsi notare è di rendersi ridicoli agli occhi di tutti e, in definitiva, ai propri occhi. Quando però ce ne renderemo conto, sarà troppo tardi e il senso di vergogna che potremmo provare, potrebbe essere eccessivo, tanto da spingerci ad abbandonare ciò che amiamo di più: lo stesso impulso artistico.