Il concetto di bisogno è nella nostra società ambiguo: da un lato lo si segnala come base fondamentale per ogni buon vivere, laddove si tratta di soddisfare i bisogni; d’altro lato, una certa morale, soprattutto cristiana, ha puntato il dito contro i bisogni, indicandoli come un gradino al quale non ci si può fermare, perché propedeutici per livelli esistenziali maggiormente completi.
La conseguenza? Si è finito per giudicare il bisogno stesso, arrivando poi a bandirlo dalla nostra vita, perlomeno a livello cosciente, con la conseguenza spesso disastrosa che esso rientra dalla finestra quando lo si è fatto uscire dalla porta. Fuor di metafora, il bisogno è un elemento imprescindibile dell’esistenza, punto di partenza per la comprensione di molte cose, oltre che per l’azione, ma anche gradino al quale non ci si può fermare, pena la riduzione della vita umana ad aspetti meramente psico-umani.
Ecco, perciò, la domanda di questo articolo: quale mai può essere il collegamento tra il concetto di bisogno e la prassi liturgica? Provo ad abbozzare una risposta.
Ciò che voglio dalla liturgia, il bisogno o i bisogni ai quali, secondo me, essa dovrebbe rispondere, sono:
- Che renda diverso almeno un momento all’interno della settimana
- Che mi faccia entrare in una dimensione all’interno della quale il tempo è annullato e lo spazio ha un senso diverso
- Che mi permetta di sentirmi vicino in senso fisico, o pieno, al divino
- Che annulli per un attimo la mia solitudine esistenziale.
Di conseguenza, alcune cose devono essere per forza espunte dalle modalità liturgiche attuali:
- Gli addendi musicali in stile pop, che non hanno nulla a che fare con il senso del divino
- La banalità dei gesti e dei significati, opachi e incomprensibili, avulsi dal quotidiano, seppur non dall’Eterno cui fanno riferimento, incapaci di parlare ancora
- Il distanziamento fisico come misura cautelare che riesce a spegnere il senso di un’unificazione veicolata anche dal contatto fisico, dagli sguardi, dalla sgradevolezza o dalla gradevolezza della presenza.
Tutto ciò attiene al concetto di comunità, perché tutti questi aspetti non possono che essere vissuti all’interno della comunità credente. Forse, da questi interrogativi, da questi “problemi“, si può partire per interrogarsi sul senso della comunità liturgica: come definirla perché non perda senso?
A questo punto, potrebbe porsi l’interrogativo se non si tratti in fin dei conti, da parte mia, di un bisogno di gratificazione personale, laddove la risposta non potrebbe che essere una: certo, si tratta proprio di gratificazione personale, ma a livello spirituale.
Il nostro senso spirituale, il mio, il tuo, quello di tutti, esiste per un motivo ed è proprio perché venga soddisfatto, perché la nostra anima non riposa se non in Dio. Senza Dio, se non ci si riesce a riconnettere a Dio, a considerarsi al suo interno, siamo in continuazione allo sbando, alla ricerca tempestosa di tale gratificazione spirituale, che cercheremo altrove. E non è detto che il luogo in cui la cerchiamo sia quello adatto a fornirci tale gratificazione. Perciò, sì, è questione di gratificazione per il semplice fatto che l’anima ha bisogno del completamento esistenziale, e ciò può avvenire soltanto immergendosi nello Spirito, aprendosi a esso, riconoscendolo dentro di noi. La liturgia, perciò, dovrebbe rispondere a un tale bisogno umano. Perché non c’è scritto da nessuna parte che debba per forza esistere liturgia: se essa esiste, è perché l’essere umano ne ha bisogno. Mi chiedo quanto ci si renda, perciò, conto dell’aspetto drammatico di non fornire una liturgia non dico efficace, non dico soddisfacente, ma che permetta la partecipazione vera, profonda.
O forse, anche la liturgia rientra in quegli ambiti di fede nei quali la decisione personale è l’unico scatto possibile.
Così come non si arriva a credere perché c’è un dato positivo, per esempio la certificata esistenza di Dio, che ti spinge ad avere fede, ma la fede è piuttosto un fatto volontario, di adesione personale che parte dall’iniziativa della persona che decide di affidarsi, così forse anche la liturgia deve essere un atto volontario, che si pone in essere soprattutto in assenza di tutte queste caratteristiche che ho appena delineato. Forse, la partecipazione alla liturgia cristiana è un’adesione che ha a che fare più con la fede che con la prassi.
Perciò, si decide di partecipare alla liturgia nella speranza che poi avvenga ciò che accade per la fede: se decido di avere fede, il mio affidamento all’insondabile, al sublime, all’assoluto, si rispecchia poi nella vita di tutti giorni in modi inattesi, secondo vie che con occhi di fede posso scoprire solo strada facendo. C’è perciò da sperare, che se decido di partecipare alla liturgia, essa riveli il suo apporto nella vita di tutti i giorni, strada facendo, approcciandomi a essa con gli stessi occhi di fede con i quali decido di affidarmi.
Ma quanto più difficile viene reso tale atto dalle liturgie sciatte, povere, banalizzanti, troppo umane che ci troviamo a vivere domenica dopo domenica?