Antropologia e cosmologia: corrispondenza mistica

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Partiamo da un’affermazione: l’antropologia è cosmologia mistica e la mistica è antropologia cosmica.

Si può raffigurare il concetto con una immagine-metafora, consistente di una serie di cerchi concentrici, divisi e uniti da bordi più o meno grossi. Il cerchio centrale non è nemmeno un cerchio, bensì un punto inesteso, ed è quello che potremmo chiamare “Spirito”, o puntiformità del Divino. Lo Spirito è ciò che nell’esistenziale (cioè nell’Essere Umano composto, diciamo così, di Coscienza e autocoscienza) può subire la massima compressione, sebbene la sua presenza rimanga comunque pervasiva. Lo potremmo pensare come un punto dal quale si diramano raggi che vanno in ogni direzione verso i cerchi più esterni. Su tali raggi, che vengon percepiti come presenza originaria del Divino in noi, creiamo-percepiamo le prime immagini che ci permettono di coglierlo: immagini di Luce, immagini di Suono.

Tale creazione-percezione è ciò che dà corpo al primo cerchio dell’esistenziale, quello dell’autocoscienza, nel quale si pongono quelli che, con linguaggio mutuato dalla psichiatria e dalla pedagogia, chiamo endocetti, elementi (stoicheia) della Coscienza narrativa. Tale cerchio dell’autocoscienza si presenta come massimamente o minimamente esteso, inversamente a seconda che si consideri il cerchio successivo compresso in modo minimo o massimo in rapporto all’esistenza o meno della diade spazio-tempo. Se infatti il cerchio più esterno, che è quello della Coscienza, lo si ritiene massimamente esteso perché fondato e colto nelle sue dimensioni spazio-temporali concrete, allora quello intermedio dell’autocoscienza sarà minimamente esteso perché nascosto alle prospettive della Coscienza. Al contrario, se la Coscienza sa farsi da parte per portare l’esistenziale oltre essa, allora il cerchio intermedio dell’autocoscienza si espande, lasciando cogliere gli stoicheia che costruiscono le narrazioni dell’esistenziale. Tale estensione va, se pro-seguita in direzione della puntiformità del Divino, sempre più disperdendo la propria sostanzialità narrativa (il che equivale a dire che vengono superate le narrazioni della Coscienza), sebbene tale dispersione non sia un reale tornare a una coincidenza fusionale con lo Spirito e, perciò, a un’unificazione realizzata, quanto piuttosto una illusione di identità (vedi Fichte e Schelling), che è con-fusione della conoscenza.

Il cerchio più esterno, quello della Coscienza, è quello più concreto.

Il cerchio esterno, spesso e concreto, oppone resistenza a motivo delle narrazioni particolari che lo sostanziano, costruite secondo vari tipi di logica, e molto spesso, secondo una logica di causa-effetto, che è quella che più cementifica la convinzione di concretezza. In questo cerchio agiscono, per esempio, le cosiddette scienze esatte, pensabili come frecce puntate verso il centro puntiforme dell’esistenziale, senza tuttavia riuscire mai a oltrepassare tale spesso bordo. Di più riescono a fare quelle discipline conoscitive che si strutturano su una logica di simbolismo-narrazione, le cui “frecce” penetrano nel cerchio intermedio. Massimamente possono le frecce degli approcci “mistici”, che puntano direttamente alla cosalità esistente della Consapevolezza, intuendo la puntiformità del Divino stesso.

Due considerazioni (più una):

  • come mostra tale metafora, il Divino è al cuore dell’esistenziale, perciò non esterno, ma nel più intimo (in interiore homines), ed è questione precipua dell’esistenza dell’esistenziale;
  • si può d’altronde vedere come anche il cerchio concreto più esterno sia manifestazione della puntiformità del Divino.
  • Infine, è da notare che la puntiformità del Divino rimane comunque esclusa da ogni ritorno (che non sia meramente conoscitivo) dell’esistenziale.

Cosa impedisce di considerare l’esistenziale una emanazione secondo lo schema emanatista di Plotino oppure cosa impedisce, al contrario, di considerare la Coscienza un risultato emergentista della fisica concreta della materia?

Sia la posizione emanatista che quella emergentista sono riduzioni dell’esperienza totale dell’Essere Umano, che non tengono conto di una funzione reale dell’esistenziale, la Volontà. È la Volontà ciò che pone l’esistenziale all’interno dell’esistenza, in quanto differenziazione dal Divino. Pur potendo continuare a cogliere la presenza originaria del Divino in noi, la Volontà positiva è anche il motivo per cui non può tornare autonomamente al Divino stesso con le proprie forze. Se la Volontà non avesse una caratteristica im-positiva irrinunciabile, non sarebbe Volontà e non potrebbe esservi seguito al proprio movimento. Il ritorno al Divino, perciò, non può che essere preparato da un atto precedente la Volontà, un atto di “chiamata” sempre presente, che è proprio ciò che ha dato la possibilità alla Volontà di costituirsi in esistenziale differenziato dal Divino.

L’esistenziale è emanazione del Divino sotto l’aspetto della conoscenza, ma non sotto l’aspetto dell’atto volontario, che rimarrà sempre esclusiva posizione permessa dal ritrarsi della puntiformità del Divino. D’altra parte, è la Volontà il discrimine nella comprensione dell’errore emergentista sotteso, per esempio, alle neuroscienze, poiché la concezione della Coscienza prevederebbe un surplus di ciò che emerge rispetto alle espressioni fisiche da cui emergerebbe, il che non è spiegabile in alcun modo sulla base dell’identità tra eventi della mente e processi fisici, principio basilare degli approcci neuro-fisiologici contemporanei. La Volontà, in che modo si inserirebbe in questa dinamica? Chiederselo è domandarsi in che modo si collegherebbe il concetto di libertà all’interno di una catena di logiche causa-effetto, laddove la Coscienza, in quanto fondata sulla Volontà e sulla logica di una libertà autolimitante, è lo strumento principale per cogliere-comprendere ciò che, a partire da tali principi, primariamente la negherebbe.

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