Siete mai rimasti a bocca aperta di fronte a quella che, incontrata per caso o da lungo attesa, sembra a tutti gli effetti una profezia? A me è successo più di una volta, e quando sembra accadere esattamente ciò che era stato previsto, tremano le certezze. Ma come funziona una profezia? E cosa può davvero rivelarci?
Facciamo un esempio che di recente mi è capitato di dover analizzare: la diffusione del Covid-19. Esistono ben due testi che sembrano aver anticipato la realtà del Coronavirus e la pandemia che ne è derivata: uno è il testo Profezie, di Sylvia Browne; l’altro il romanzo Abisso, di Dean Koontz. Il primo testo, a quanto pare pubblicato nel 2008, riporta, testuali parole:
entro il 2020 diventerà di prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma, a causa di un’epidemia di una grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura. Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, sembrerà scomparire completamente per altri dieci anni, rendendo ancora più difficile scoprire la sua causa e la sua cura.
Si può rimanere basiti dall’incredibile precisione di questa previsione e si può essere portati, di primo acchito, a pensare che davvero sia possibile prevedere il futuro. Ora, sulla possibilità di prevedere il futuro in senso “mistico” non mi pronuncio. Di certo è possibile farlo in senso probabilistico: comprendendo a fondo come si sta sviluppando una civiltà, si può immaginare cosa potrebbe accadere entro certi periodi storici successivi a quello in cui si sta vivendo: si chiama “futurologia”, ed è una disciplina a cavallo tra l’economia e la statistica, che ha una lunga storia alle spalle. Già in Francis Bacon, il filosofo inglese, possiamo ravvisare una capacità futurologica quando, nella Nuova Atlantide, parlava delle creazioni possibili grazie a una ricerca scientifica sistematizzata, controllata e condivisa da società tecno-scientifiche opportunamente organizzate. Un famoso futurologo di cui lessi in tenera età Il Medioevo prossimo venturo è Roberto Vacca. Per rimanere, però, a Sylvia Browne, questo sito mostra quali sono alcune obiezioni che permettono di smontare la supposta profezia. Il dato generale che se ne ricava, è che la “profezia” non è assolutamente precisa e che contiene dati tutto sommato facilmente prevedibili.
L’altro esempio, il romanzo Abisso di Dean Koontz, viene presentato dall’editore TimeCrime con il sottotitolo di lancio “Coronavirus – il romanzo della profezia”. Spiegazione che ho trovato sul sito di IBS: “In questo thriller nel 1981, l’autore profetizza la comparsa del virus Wuhan 400 (Coronavirus) proveniente dalla città cinese di Wuhan nell’anno 2020. Un virus in grado di uccidere la popolazione di tutto il mondo con il solo contagio per vie respiratorie… Oggi, la profezia si è avverata. Questo romanzo è diventato realtà.”
Se, però, andiamo alla ricerca di qualche informazione in più, scopriamo che il romanzo, pubblicato in effetti nel 1981, riportava quale primo nome del virus non Wuhan 400 bensì Gorki400, per il semplice motivo che all’epoca nemico numero 1 del mondo occidentale era l’Unione Sovietica. Nel 1991, infatti, il nome venne cambiato – dopo la caduta dell’URSS – in Wuhan 400, e non è difficile comprendere come mai venne scelto un nome cinese: la Cina era già destinata a imporsi come gigante economico-politico. Qui potete leggere maggiori dettagli. Possiamo comunque dire che Wuhan è dal 1953 sede dell’Università di scienza e tecnologia di Huazhong e che volendo indicare un nemico nuovo dal quale guardarsi, magari per una minaccia tecnologica, il collegamento diviene probabile. Senza dimenticare che le malattie alle vie respiratorie sono da parecchio tempo tra le più diffuse.
Certo, si potrebbe obiettare sulla moralità di operazioni editoriali tese a sfruttare la disgrazia, ma a onor del vero, questo accade innanzitutto per le testate giornalistiche. Non è comunque mia intenzione approfondire questo aspetto, quanto piuttosto il pormi una domanda: c’è una qualche utilità o un qualche senso nella superstizione (e il credere in simili “profezie” è chiaramente superstizione) che vada al di là di un semplice e sbrigativo giudizio?
Lo dico meglio: cosa indica la superstizione in riferimento alla modalità conoscitiva dell’essere umano?
Proviamo a dare una risposta. Dal momento che la superstizione è una tendenza da sempre presente nella mente umana, più che accanirsi nell’estirparla (per carità, azione spesso meritoria), potrebbe divenire un’ottima occasione per comprendere cosa c’è nell’animo della persona che cade nella superstizione.
Un primo livello di spiegazione può essere quello psicologico: il bisogno di credere nella profezia superstiziosa esprime il tentativo di proteggersi da un pericolo che non si conosce bene. In questo, tale bisogno superstizioso non differisce granché dalla razionale previsione futurologica sulla base di una probabilità: sono entrambi tentativi di mettersi al riparo da evoluzioni presenti o future percepite come minacciose.
Un secondo livello è quello intellettivo: la profezia è frutto di un errore logico, esattamente come ogni superstizione. Ovvero, si mescolano tra loro piani che appartengono ad ambiti differenti. Per esempio, la possibilità di una manipolazione scientifica (che appartiene a un ambito matematico, fondato su una logica causa-effetto) incontra la credenza in una realtà soprannaturale (che appartiene a un ambito “spirituale”, fondato su una logica simbolico-narrativa) sulla base di una motivazione personale, normalmente nutrita di un significativo trasporto emotivo-affettivo (per esempio la percezione, che rende concreto nella nostra mente il risultato di questo intreccio) e in esso finiamo per identificarci.
Un terzo livello è quello che a me più interessa: è come se la superstizione fosse una freccia che punta per errore verso la superstizione stessa (cioè credo che la profezia sia davvero una profezia, un dato reale esterno a me; oppure, per fare un altro esempio, credo che il malocchio sia davvero una magia, cioè un dato concreto di un potere che giunge dall’esterno su di me). Tale freccia può essere riposizionata verso l’alto, e quindi può partire da me per andare a indicare ciò con cui sto cercando di entrare in relazione tramite l’oggetto della superstizione. Nel caso della profezia sul Coronavirus, per esempio, c’è il racconto di una previsione di malattia e c’è un soggetto che crede nella profezia, il quale decide (anche se, forse, in modo inconsapevole) di credere per vera quella previsione effettuata nel passato. Il dato importante qui è che la profezia avviene sempre nel passato, come per dire: era possibile evitare il problema attuale se in passato ci fossimo comportati in modo diverso. Cosa si nasconde, perciò, nel cuore di una persona che decide di credere a una simile profezia, se non il bisogno di correggere un comportamento denso di conseguenze negative? Chi crede nella profezia sul coronavirus si mostra, di conseguenza, come una persona che fallisce la riflessione su di sé, spostandola da sé verso una “oggettivazione” esterna: il male che doveva accadere!
A ben vedere, la credenza in una profezia nefasta è il tentativo di esprimere un “senso di colpa”, chiamiamolo così, che, se ben espresso, dovrebbe esprimersi con le parole: dovrei essere responsabile oggi come dovevo esserlo in passato, così non sarebbe accaduto ciò che sta accadendo. Ma questo senso di colpa non è altro che il sentirsi o il lasciarsi affliggere da una responsabilità che percepiamo come eccessiva rispetto alle nostre forze: è arrivato un grande male; come posso fare a sostenerlo? Non ci riesco, perciò faccio di tutto per non sentirmi responsabilizzato da quanto sta accadendo e allora… ecco che doveva accadere, ecco che qualcuno lo aveva previsto. E via di seguito, con le altre superstizioni: ecco che se non prego non si risolverà, ecco che se non facciamo tante messe non si risolverà, ecco che… Ma il senso di colpa appartiene a un piano meramente simbolico-narrativo dell’esistenza: se richiama a un senso di responsabilità personale, per accrescerla, allora ha il suo motivo di esistere, se invece fa sentire responsabili senza che lo siamo effettivamente, è un veleno.