Ovvero, della fortuna di un libro nell’epoca della dimenticanza.
L’Asclepius è caratterizzato da una storia separata rispetto a tutto il resto. Traduzione latina di un perduto originale greco, «parti del quale ci sono note da un papiro magico, da Lattanzio, da San Cirillo, da Giovanni Lido e Stobeo»1, la sua storia è comunque parallela a quella del corpus. Dopo Sant’Agostino e fino al secolo XII, infatti, sembrano perdersi le tracce dell’Asclepius. Con ogni probabilità, questo testo ha costituito bastione di protezione e via di trasmissione dell’ermetismo in Occidente per tutto il medioevo.
È indubbio che la magia e la stregoneria facciano parte della strumentazione di cui l’essere umano si è dotato da tempi antichi per fronteggiare le principali domande ed esigenze della vita, ma da sempre la pratica magica si pone sul crinale che divide la necessità di risolvere problemi dal bisogno di trovare il senso unitario delle cose. Basti pensare a un semplice dato storico e letterario: tutta la moderna magia e tutto il pensiero magico dal Cinquecento in poi si fonda sull’importanza, potremmo dire “filosofica”, del Corpus Hermeticum, la cui strutturazione pare confermare questa duplice tendenza: se il primo trattato della prima parte, titolato Poimandres (a causa di un errore del suo primo traduttore, Marsilio Ficino, che così nominò tutto il Corpus, utilizzando il nome del primo trattato che lo compone), parla della creazione del mondo e dell’uomo secondo un’ottica in gran parte neoplatonica, cui fanno seguito brevi trattati di vera e propria filosofia a cavallo tra neoplatonismo e stoicismo, la seconda parte, l’Asclepius, è un trattato di magia più concreto che si ricollega alle pratiche egizie.
Il testo, dallo stile oscuro e solenne, che solo gli iniziati possono comprendere, ha un carattere chiaramente asistematico che crea agli interpreti non poche difficoltà di comprensione. Il messaggio proposto è che il concetto di gnosi è strettamente correlato ad una complessiva visione di Dio, del mondo e dell’uomo, che viene raccontata al discepolo per ispirare in lui la devozione. Dio è l’essere privo di nomi, che allo stesso tempo li possiede tutti, il padre, ma è maschio e femmina; potente tra i primi e buono, ma non è il sommo bene dei cattolici; è conoscibile per l’essere umano solo attraverso l’intelletto ed esprime la sua potenza nella creazione del mondo, che poi governa mediante la provvidenza. L’Asclepio afferma l’unità di creatore e creatura. All’interno di una visione cosmologica densa di elementi oscuri, il primo Dio è presentato come il signore dell’eternità; il secondo è il cosmo, terzo viene l’uomo. Complesso è anche il rapporto di mediazione che è istituito tra Dio e il mondo, rappresentato da una gerarchia di dei minori e di demoni: le asserzioni sull’esistenza dei demoni conducono a una giustificazione della teurgia (magia rituale), addirittura si afferma che gli uomini possano introdurre nelle statue da loro fabbricate il principio divino, affinché possano profetare. L’antropologia dell’Asclepius ha un’ispirazione profondamente ottimista, pur ribadendo il dualismo tra anima e corpo, e la superiorità della prima, che ha una natura divina, sul secondo: grazie a questa natura doppia, l’essere umano contiene in sé come microcosmo tutti gli aspetti della realtà e di conseguenza ha la capacità di governare il mondo, che gli esseri puramente spirituali non hanno.
E con questo, almeno per il momento, concludo con il discorso sul Corpus Hermeticum, tratto in buona parte dal saggio che sto scrivendo sul codice narrativo della magia.
1 ERMETE TRISMEGISTO, Poimandres, a cura di P. SCARPI, Venezia: Marsilio 1987, 105 pp.