Nel Manifesto fantasy iniziale dicevo riguardo al fantasy come narrazione della vita quanto segue, riferendomi in modo particolare a Storia di Geshwa Olers:
S. di G. O. è la vita, la narrazione di un’esistenza che si trova proiettata dal desiderio di altri al centro di una grande confusione esistenziale, che il protagonista fa fatica a comprendere e reggere. Da qui ne deriva la sua struttura: è quasi episodica, con molte narrazioni create da tanti narratori, e con vicende che – talvolta – sembrano non avere conclusione; è lineare, secondo la vita di Geshwa Olers (e il titolo del romanzo dovrebbe far capire subito che è tutto incentrato sulla sua vita, su ciò che gli accade, non su altro), narrata secondo quei momenti salienti che ne hanno fatto una figura centrale per la storia di Stedon, il mondo in cui tutto si svolge; è talvolta banale e talvolta fiabesca e talvolta magica e talvolta epica e talvolta horror e talvolta comica e talvolta drammatica e talvolta noiosa e talvolta triste e talvolta tutto ciò che volete voi, perché in essa tutto si trova, dal momento che non è altro che la fotografia di una vita. È soprattutto questo approccio ad aver determinato le maggiori difficoltà editoriali della serie, il vero motivo per cui è difficilmente collocabile. Forse potrà essere apprezzata per intero solo alla fine, ma è indubbiamente un apprezzamento che richiede uno sforzo notevole: oltre tremila pagine di scrittura.
Scrivere un romanzo fantasy secondo criteri tanto sballati e poco “canonici” potrebbe sembrare arbitrario ai più: un mero fare-come-dico-io autoreferenziale, perché così l’autore si solleva da ogni giudizio di merito da parte dei critici nei confronti di ciò che egli scrive. Se l’autore si pone al di fuori dei canoni della narrativa fantasy, allora si pone al di fuori della giudicabilità.
A ben vedere, però, questo ragionamento è piuttosto inconcludente, perché porsi al di fuori dei canoni per un pubblico che è comunque abituato ai canoni, è innanzitutto controproducente. Chi è abituato a incasellare e comprendere attraverso ciò che è già conosciuto, farà fatica a inquadrare un qualcosa che non si rifà ai canoni classici. Ovviamente questo accade a rischio e pericolo dell’autore, dal momento che è l’autore stesso a porsi eventualmente in una terra di nessuno. Faccio questa riflessione perché mi riguarda da vicino.
Vado dicendo da tempo che Storia di Geshwa Olers è un romanzo che si pone al di fuori dei canoni classici e la cui apparenza inganna. Vediamo quali sono questi canoni classici, cui tutti fanno riferimento ma che nessuno dice (provate a fare una ricerca in rete, e vedrete come tra i siti italiani non ce ne sia uno che tenti un elenco).
Non possono essere enumerati con certezza e non ci si può aspettare di trovarli in ogni fantasy. Comunque:
– l’eroe, spesso povero, umile e di origini misteriose, per lo più orfano;
– i compagni, spesso amici dell’eroe, raccolti strada facendo o assegnati da una volontà superiore;
– il nemico, quasi sempre definito come personaggio molto cattivo e che vuole far fuori l’eroe per riuscire a portare a compimento il proprio disegno malvagio;
– una terra di stampo medievale, dove la magia regna sovrana, con reami, principati, ducati e altro, con popolazioni diversificate in razze (le classiche sono umani, elfi, nani, troll, a loro volta suddivisi in sottorazze o razze miste);
– una battaglia da affrontare, per la sopravvivenza della terra dei buoni;
– uno o più oggetti magici che aiutano i protagonisti;
– una profezia che investe il protagonista o il reame al centro della scena;
– un traditore;
– il viaggio.
A questi canoni comuni si uniscono dei clichés, dei luoghi comuni che rendono il fantasy tutto più o meno uguale, pur nella varietà delle storie. Soprattutto, i clichés sono ciò che il lettore si aspetta di trovare per poi poterli denigrare. Guardate, accade molto più spesso di quanto si pensi, in modo particolare nei confronti del fantasy italiano: i lettori sono molto meno propensi a perdonare i clichés ai loro connazionali di quanto non facciano con la narrativa straniera. A discolpa parziale di questi lettori si può avocare la reale ripetizione quasi ossessiva dei clichés da parte degli scrittori.
Utilizzare i clichés, però, è una decisione dell’autore. Farlo non è reato, ma se vuole farlo, l’autore dovrà essere in grado di gestirli in modo tale da non cadere nel banale. Lo stesso dicasi per i canoni classici che ho elencato. Li si ritrova più o meno ovunque, tranne nei fantasy cosiddetti innovativi, diversi, che si pongono ben al di fuori di quelle linee indicative. Mi vengono in mente alcuni autori che si muovono a loro margine o addirittura bel lontano: Francesco Dimitri, Francesco Barbi, GL D’Andrea, per dirne solo tre.
Arrivati a questo punto, la domanda che mi pongo è: è possibile fare a meno dei canoni classici e dei clichés?
Forse sì e forse no. I canoni e perfino i clichés servono a rendere riconoscibile un genere. Tuttavia, come già accennavo, è possibile utilizzarli in modo differente. Anche coloro che vanno al di fuori dei canoni classici senza richiamarvisi in modo chiaro, non fanno altro che citarli attraverso un non-utilizzo. Non voglio parlare del reame, e allora ti metto dentro una repubblica. Non voglio parlare dell’eroe, e allora ti metto dentro un anti-eroe. Non voglio parlare del cattivone, e allora sono tutti cattivi e la differenza tra bene e male è molto sfumata e confusa. Non voglio parlare del viaggio, e allora il viaggio diventa tutto mentale, metaforico, interiore. A ben vedere, non si può fare a meno dei canoni classici.
Tuttavia sono convinto che li si possa utilizzare in modo del tutto nuovo. Per quanto mi riguarda, la strada scelta è quella dell’utilizzo esplicito dei canoni e perfino dei clichés classici per poi smontarli uno a uno nella seconda parte di Storia di Geshwa Olers. Chi legge i primi volumi, ne trova una quantità elevata (forse tutti), e qui subentra il primo problema indicato all’inizio di questa riflessione: il lettore di fantasy li noterà per ovvi motivi e sarà subito pronto ad additarli, perché non avrebbe nessun motivo per non farlo. I clichés sono come i capperi nella peperonata: tutti li tolgono perché non piacciono a nessuno, anche se è ovvio che ci vadano. S. di G. O. abbonda di clichés per mia stessa ammissione, ma sono tutti funzionali all’obiettivo che mi sono proposto, cioè raccontare una vita.
Nella vita i clichés abbondano. Nella vita comune la gente si muove e decide secondo clichés. In essi ci riconosciamo o da essi ci smarchiamo. Una narrazione necessita di clichés, ma è il modo in cui li utilizza a renderla originale oppure no. Il mio romanzo fantasy è una lunga storia sulla vita di un uomo, e mostra il modo in cui i clichés, i luoghi comuni della vita, vengono smantellati uno dopo l’altro a partire dal quinto volume. L’eroe che non è un eroe, tanto meno un orfano. I compagni che sono compagni fino a un certo punto. Il nemico che perde il suo status definibile di grand villain. La terra che non ha quasi nulla a che fare con la classica definizione fantasy. E per proseguire, battaglie che non sono battaglie, profezie che non sono profezie, traditori che scoprono di non esserlo e il viaggio che esonda da ogni possibilità immaginabile di viaggio fantasy.
Perché questo funzioni, però, dev’essere immerso in una lettura più ampia, in un panorama ben più vasto di quello ristretto dell’orizzonte fantasy italiano, avere accesso a modalità narrative che trascendono il genere e toccare tutti gli aspetti della vita. Perché i classici canoni e clichés del fantasy possano essere utilizzati in modo nuovo, dev’essere il fantasy stesso a rileggersi in una chiave totalmente differente. Il fantasy deve diventare una lettura profonda e non superficiale della vita stessa. Non solo: il fantasy deve improntarsi all’evolversi della vita stessa. Deve assumere i contorni della grande narrazione epica di un’esistenza, trovare i colori della vita in tutta la sua estensione. Bisogna trasmettere la passione? Allora si usi la passione. Bisogna comunicare amore? Si parli dell’amore senza paura. Si vuole trasmettere la disillusione? La narrazione drammatica, allora, deve fare la sua irruzione, anche con toni molto cupi. E la noia, ha posto nel romanzo fantasy? Certo, deve averla. Se un viaggio è noioso ed è importante che sia noioso per il quadro di vita che il romanzo vuole tratteggiare, allora lo stesso lettore deve annoiarsi (avete presente la noia trasmessa volontariamente da Thomas Mann ne La montagna incantata?).
Non esiste nessuna emozione che debba essere sconosciuta a un romanzo fantasy. Il fantasy è l’unico genere che possa permettersi un simile approccio, perché il fantasy delinea un mondo. Ma qui sta l’equivoco maggiore: il mondo che il fantasy delinea non è quello artificioso di una quasi-terra o di un quasi-medioevo, ma è quello reale dell’esistenza umana, attraverso il quale e nel quale l’autore parlerà della vita secondo prospettive inusuali a lettori che però siano capaci di oltrepassare pagina 100.
2 risposte a "Manifesto fantasy – approfondimento terzo"