34 – Cristianesimo /2

Il cristianesimo è stata una religione tra le più pervasive e produttive, sia sotto l’aspetto sociale che sotto quello culturale. È riuscita a trasformare così tanto l’idea di essere umano, da portarlo a un continuo riconoscimento e affermazione della propria interiorità. Questa interiorità si è affermata negli ultimi secoli con quella società occidentale dei diritti e dell’uguaglianza cui oggi facciamo continuo riferimento, a volte perché la sentiamo come eccessiva, fin troppo progressista, e, più spesso, perché la percepiamo sotto attacco dall’esterno o dall’interno.

Siamo però sicuri che il riconoscimento della nostra interiorità sia la cosa più importante del cristianesimo? Siamo proprio certi che lo scopo del cristianesimo sia quello di portare a un sempre maggior rispetto di ciò che è l’essere umano nelle sue differenti e molteplici verità? Attenzione: non sto criticando il sistema dei diritti, che credo siano davvero uno dei modi migliori che abbiamo per riconoscere proprio la divinità presente in ciascuno di noi. Mi riferisco all’affermazione della nostra identità e della nostra personalità: è questo ciò che ci chiede il Vangelo? Proviamo a ragionarci.

Il Cristianesimo nasce dall’annuncio di alcuni uomini che raccontarono di essere stati testimoni di un evento eccezionale: la resurrezione di un uomo che diceva di essere Figlio dell’Uomo e che compiva gesta capaci di lasciare un segno profondissimo in chi lo incontrava. Questi uomini tentarono di tradurre in parole l’esperienza che avevano fatto con lui e la comprensione di ciò che gli era successo dopo essere stato ucciso con l’infamia della croce. Come raccontare al meglio la certezza della resurrezione di Gesù figlio di Maria e di Giuseppe con il senno di poi? Come riuscire a rendere con le categorie dell’uomo ebraico e con l’ausilio di una lingua che non possedeva grandi astrazioni una realtà vissuta ed esperita come quella della resurrezione del figlio di Dio? 

Mentre era in vita, infatti, mentre Gesù istruiva i suoi discepoli, di tanto in tanto faceva riferimento al concetto che il Dio invisibile, ritenuto così trascendente da non poter essere in alcun modo nominato, era in realtà un Padre. Anzi, un papino, abbà, un babbo, per dirla alla toscana. Questo babbo – Gesù ne era convinto – non lo avrebbe lasciato morto per sempre, nell’ombra dello Sheol, ma si sarebbe ricordato di lui e avrebbe confermato la fiducia che Gesù riponeva in lui: infatti, lo sentiva presente in ogni momento e in ogni situazione, e con Lui si fermava spesso a parlare con quella pratica di preghiera che oggi conosciamo come meditazione. Questi riferimenti a una fiducia tanto grande nel supporto del Divino, nel Vangelo vennero raccontati con il concetto di resurrezione, di certo non inventato da Gesù o da qualcun altro a lui successivo, ma già presente nell’Antico Testamento a partire dagli ultimi profeti; testo sacro, l’Antico Testamento, cui Gesù stesso faceva continuo riferimento nella sua predicazione. 

E qui torniamo all’annuncio di quei primi discepoli: come far comprendere a chi non aveva incontrato Gesù la sua eccezionalità?

Erano ben consapevoli, infatti, che pur essendo Figlio dell’Uomo, come lui stesso diceva, Gesù era anche volto del Divino, volto di Abbà, del Padre altrimenti irraggiungibile. Tramite Gesù, questo Padre irraggiungibile si faceva vicino: anzi, in mezzo alla gente. Il modo migliore che avevano era quello di utilizzare il linguaggio giù in uso in Israele e non solo: da un lato, la lingua e le parole dell’Antico Testamento, dall’altro la lingua e le parole della gente. Ebraico, perciò, la lingua del popolo; ma anche il greco della koiné, cioè l’inglese internazionale dell’epoca, e l’aramaico, la lingua della gente.

Racconto dopo racconto, volendo trasmettere il nucleo principale della predicazione di Gesù, e cioè che il Dio lontano e invisibile era in realtà vicino – in mezzo a noi – e presente in ciascuno – a partire da Gesù stesso, che ne mostrava il volto di totale umanità -, si crearono dei gruppi di immagini facili da trasmettere: eventi speciali e colmi di significato, come il seme che cade in terra e muore per portare nuovo frutto, o la capacità di camminare sulle acque tempestose della propria esistenza o, ancora, la predizione che il corpo sarebbe stato distrutto in tre giorni proprio come un tempio, del quale non sarebbe rimasta pietra su pietra. O, ancora, che chi moriva nella sua (di Gesù) capacità di affidamento al Padre invisibile ma vicino, non sarebbe morto in eterno. Di quale significato si caricarono, perciò, questi eventi e queste parole, fino a diventare dei segni della presenza di Dio? Di quello che Gesù aveva colto nel suo rapporto vicinissimo con il Padre presente, un significato che mostrava la sua verità eterna perché colto nel rapporto vero dell’uomo Gesù con gli altri uomini donne e bambini, di qualunque risma ed estrazione. 

Questi eventi colmi di significato erano segni più o meno facilmente leggibili dalla gente dell’epoca: si fondavano su un simbolismo della quotidianità, che dalla gente che abitava le città dell’epoca e che lavorava le terre di Israele veniva ben colto. Solo chi era particolarmente chiuso a ogni possibilità di fascinazione, solo a chi resisteva all’invito implicito di questi racconti – venite e vedete!: un invito pericoloso per un’identità timorosa e chiusa – essi non dicevano granché. Ed ecco, qui sta il dato fondamentale, determinante del Cristianesimo:

—> il Cristianesimo è fiducia nel significato di una parola, di un discorso, di un racconto testimoniato moltissimo tempo fa. Non è altro: non è nuovi significati stratificati. Non è significati riservati a pochi eletti. Non è significato che può essere capito solo dopo essere stati iniziati. Il Battesimo arriva a conferma… Certo, non nella pratica che si è sviluppata in seno alla Chiesa dopo qualche secolo, ma il senso vero del Battesimo è la conferma che si fa parte di coloro che credono nella parola del Vangelo, cioè nella vita divina di Gesù. Soprattutto: il Cristianesimo non è conferma di ciò che siamo, non è reiterazione di un’identità che ci fa sentire al sicuro. Il Cristianesimo non è il primo dei social networks!

—> Proprio perché il Cristianesimo è fiducia nel significato di una parola, esso deve portare a un affidamento in quel Dio invisibile e sempre considerato lontanissimo – fateci caso… anche oggi moltissimi tra noi lo considerano lontanissimo -, un affidamento che significa ostinazione nel rendersi presente con la propria consapevole messa in gioco negli eventi della vita. Solo rendendosi presente, ciascuno di noi può lasciarsi trovare dallo Spirito divino. Se ci sottraiamo in continuazione, lasciandoci portare da questa o da quest’altra parola che nulla ha a che fare con l’intento originario di Gesù figlio dell’uomo – che è, ricordiamocelo: il Dio lontano e invisibile è in realtà vicino e presente in ciascuno -, come possiamo far sì che lo Spirito ci trovi in un’apertura fertile? Riempiendoci la testa e il cuore di cose altre – nuove verità svelate in rivelazioni private, miracolismi, paure incombenti, oppure di conferme tutte personalissime che servono a supplire l’una o l’altra fragilità di un animo che sarà comunque sempre mancante di qualcosa -, ebbene, se ci rompiamo la testa di queste cose rischiamo di essere un terreno pieno di sassi, oppure di soffocare l’affidamento necessario tra le spine dei nostri dubbi, o magari di essere così aridi da non saper trovare acqua per far crescere la pianta della fede.

Guardate: la ricchezza umana che il cristianesimo è stato in grado di apportare alla società dell’homo sapiens sapiens è dipesa in buona parte da quel granello di senape che è stato accolto e che si è sviluppato nell’arco dei secoli a dispetto della capacità dell’essere umano di turbarne lo sviluppo, di bloccarlo e di infangarlo, di distorcerlo e di tradirlo. 

Il tradimento del cristianesimo, d’altronde, è iniziato fin dai primi momenti, ancora vivente Gesù, perché era, in realtà, tradimento di Cristo e del Suo ministero tra gli uomini. Era tradimento della capacità di affidarci al Divino invisibile, considerandolo ancora lontanissimo, ancora superiore a noi, ancora differente da noi. E come duemila anni fa Gesù era nel mondo, un mondo fatto – secondo un’antica sapienza non solo ebraica ma anche molto greca e filosofica – un mondo fatto per l’appunto per mezzo di lui, ebbene, questo mondo non lo ha riconosciuto e continua oggi a non riconoscerlo. 

Quando parlo di mondo, non parlo delle grandi potenze o degli eventi della storia, o di chissà quale demonio. No: parlo di noi, delle persone, di coloro che dovrebbero lavorare su se stessi per riuscire ad accogliere la sua parola. Perché come dice l’evangelista Giovanni: Venne fra la sua gente e i suoi non lo accolsero. (Gv 1, 10-11)

Cosa facciamo allora noi per far sì che questo cristianesimo sia ancor oggi reale e concreto? Ci accontentiamo di andare a messa? Ci accontentiamo di ripetere riti e parole di cui capiamo a malapena il senso? Oppure, ci lasciamo trasformare interiormente, partendo da ciò che siamo nelle nostre fragilità, nella nostra umanità, nelle nostre emozioni e nel nostro corpo, per poter accogliere il Dio in mezzo a noi, che non significa altro che… la persona che ci sta di fronte o accanto?


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