Una riflessione iniziale sul linguaggio che utilizziamo quando scriviamo, a partire dal testo di Walter Siti, Contro l’impegno. Ecco quanto afferma:
Se in queste pagine non mi sono sottratto alla figura un po’ patetica del letterato vecchio stampo, è perché avverto intorno a me un clima culturale che tende a svilire la letteratura, confinandola ai compiti di denuncia e di intrattenimento – se fosse solo quello, allora è ovvio che non potrebbe reggere il confronto con mezzi espressivi più “potenti”.
W. Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul bene in letteratura, Rizzoli 2021, p. 88.
Attraverso questa critica, Siti indica due tipologie di narrativa corrente, indifferentemente dal genere in cui essa si situi: la narrativa del presente, quella che racconta l’oggi fornendo una chiave interpretativa, e la narrativa del divertimento, che ha come scopo lo svago, l’evasione. Esiste una tipologia ancora peggiore di queste due categorie, già di per sé piuttosto asfissianti: la narrativa che vuole divertire e denunciare insieme, che vuole essere sia svago sia impegno.
Ciò non vuol dire, ovviamente, che una buona letteratura divertente non sia, insieme, anche testimonianza della concreta realtà umana, o perfino della concreta realtà storica del periodo in cui quell’opera nasce: si leggano i romanzi della Austen, che sono divertente descrizione della società in cui viveva, ma che nascondono in sé (quanto implicitamente, sta al lettore stabilirlo) il germe della critica sociale, se non l’ironica presa di distanza. E non soltanto dalla società “politica” o dalla classe cui apparteneva, ma anche dalla società “letteraria” di cui faceva parte e dalle correnti narrative cui essa si abbandonava. Northanger Abbey parla chiaro.
Il romanzo o il racconto, e il loro linguaggio, sono frutto del loro autore. Ovvio, mi si dirà, ma è forse oramai poco ovvio che essi non debbano essere diretta conseguenza della sua appartenenza sociale o delle sue esperienze di vita.
Ancora una volta, mi avvalgo di un brano di Siti:
<<Quel che può “combinare” la letteratura>>, aveva detto [Roberto Saviano] durante un discorso a Stoccolma nella sala del Nobel, <<si rivela spesso in situazioni estreme>>; poi ha conservato questa convinzione, occupandosi soltanto di situazioni estreme – ma non è vero: si trovavano in situazioni estreme l’impiegato Kafka, la zitella Jane Austen, il rentier Proust, i mantenuti Virgilio e Ariosto?
Siti, Contro l’impegno, p. 89.
Mi vengono in mente, per completare l’elenco di Siti, l’abitudinario Stephen King, il fantasioso Steven Spielberg e il linguista Tolkien. Quali situazioni estreme devono aver vissuto che possano poi esprimere nella loro produzione sotto forma di uomini bassi in soprabito giallo, di predatori di antiche reliquie dai poteri portentosi o di furbi draghi dall’alito infuocato (a dire il vero per Tolkien è stata ahimè eseguita un’operazione cinematografica nella quale, purtroppo, si mostrava l’immaginazione del soldato Tolkien in azione)? Proprio il pensiero rivolto alla narrativa horror offre lo spunto per un passo avanti.
Quante volte mi sono sentito dire: questo scrittore (di solito in riferimento a King, ma sottotraccia, è il pensiero che viene rivolto a chiunque scriva horror o storie inquietanti) deve aver vissuto da piccolo qualcosa di veramente brutto. Come se, per l’appunto, ciò che si scrive sia frutto di ciò che si vive. Ebbene, così non è.
La scrittura ha a che fare con la vita del suo autore tanto quanto la scoperta di uno scienziato ha a che fare con le sue convinzioni in fatto di spiritualità. Cioè nulla.
Certo, mi si potrà dire che la spiritualità dello scienziato può inclinarlo a compiere ricerche di un certo tipo piuttosto che di un altro, per esempio può spingerlo a cercare una legge universale anziché limitarsi a una particolare specie di particella. Ma ciò non è né necessario né ovvio, per il semplice motivo che lo scienziato segue una strada personale di ricerca che ritiene indipendente dalle proprie vicissitudini (che è altro dal dire che la sua strada personale sia del tutto indipendente dalle proprie vicissitudini). Non se ne lascia appiattire. Che c’entra tutto questo con il linguaggio nel racconto? Arrivo al dunque.
Un problema ricorrente nella scrittura è l’utilizzo adeguato di un linguaggio legato ai protagonisti della vicenda e, al limite, alla voce del narratore. Ebbene, né i protagonisti né il narratore corrispondono mai all’autore, anche quando il protagonista o il narratore sono dichiaratamente l’autore stesso.
Nel momento in cui l’autore sceglie di raccontare di se stesso o di utilizzare la propria voce nella narrazione, sta compiendo una scelta ben consapevole di rappresentare se stesso secondo una finzione narrativa. La finzione narrativa, però, prevede un linguaggio codificato a partire dal protagonista o dal narratore in quanto tali, e non in quanto manifestazioni dell’autore. Nel momento in cui l’autore traspare dal racconto, il problema diviene davvero grande e ha un nome: scarsa qualità.
Ho scelto l’esempio limite dell’autore che rappresenta se stesso (la letteratura ne è piena) per rendere massimamente chiaro ciò che voglio mostrare: la possibilità di appiattire il linguaggio del racconto sul linguaggio dell’autore che lo produce. Il linguaggio del racconto, però, deve essere diverso da quello del suo autore, deve essere di più (dove questo “più” vuol dire: più specifico, più preciso, più adatto) e deve anche essere di meno (dove questo “meno” vuol dire: meno familiare, meno consueto, meno ovvio).
In una parola, il linguaggio del racconto deve essere “originale”. Ogni protagonista della narrazione (ogni, non solo i principali, ma ciascun essere vivente e senziente appaia nel racconto) deve avere una sua voce personale, che riflette le sue vicende personali, e non quelle dell’autore, che altrimenti finirebbe per essere fin troppo presente, invadente, inopportuno, e snaturare il tutto.
Provate a fare un esperimento: elencate le espressioni linguistiche che utilizzate o avete utilizzato prevalentemente nel contesto della vostra famiglia o della vostra cerchia intima, oppure in quella lavorativa. Vi renderete conto che esistono più linguaggi codificati, che trovano il loro pieno significato all’interno della cerchia di riferimento, con buona pace dell’originalità stilistica nel caso in cui vengano utilizzati per far parlare uno dei personaggi.
Ecco, far parlare ogni protagonista del racconto con la sua voce (narratore compreso) è una delle fatiche da compiere nel caso in cui si voglia fare un passo in più verso la qualità. Non farlo equivale a svilire la propria opera, a ridurla a produzione reattiva alla vita del suo autore. Con il che si compirebbe il passo verso l’indebolimento della letteratura.