Proseguiamo con la nostra ricerca all’interno della memoria e della mente, aiutati da Sant’Agostino, che tanto acutamente ha indagato i recessi dell’anima, alla ricerca della presenza di Dio.
Dopo aver scoperto come la mente sia in grado di ricordare al solo comando della volontà, e come tale ricordo possa essere anche ‘semplicemente’ il ricordo del ricordo e perfino il ricordo della ‘dimenticanza’, il Santo di Ippona mette sul tavolo la prima delle carte che ha in mano e che lo porteranno a fare poker. Leggiamo, infatti, in X.20:
In qual modo si cerca la felicità? Io non l’avrò raggiunta se non quando potrò dire: «Basta, è là». Bisogna quindi che io mi domandi come cercarla. […] Non è proprio la felicità che tutti vogliono, che nessuno, nessuno non vuole? Come l’hanno conosciuta per desiderarla tanto? Dove l’hanno vista per amarla tanto? E non so come, ma in una qualche misura noi l’abbiamo. […] Se non la si conoscesse in un modo qualsiasi, non si avrebbe il desiderio della felicità, ed è invece certissimo che la si vuole. Non so come gli uomini la conoscano, e mi studio di sapere se codesta conoscenza risieda nella memoria, ché se quella è la sua sede bisogna dire che vi fu un tempo in cui eravamo felici. […] Noi (ripeto) non l’avremmo se non ne avessimo conoscenza. Sentiamo questa parola, e tutti confessiamo di tendere alla cosa significata: […] la cosa significata non è né greca né latina, ma al suo raggiungimento mirano greci e latini e gli uomini di qualsiasi linguaggio. Essa è dunque conosciuta da tutti, e tutti, se si potessero interrogare con un termine comune se vogliono essere felici, tutti risponderebbero affermativamente senza ombra di esitazione.
E al n. 21 prosegue:
Chi vuol raggiungerla per una strada, chi per un’altra, ma tutti mirano alla stessa meta: godere. Ordunque, trattandosi di cosa di cui nessuno può dire di non averne fatto esperienza, quando si sente parlare di felicità, noi la ritroviamo e la riconosciamo nella memoria.
Possiamo anche aver vissuto fin dall’infanzia cose belle, ma della felicità, diciamo che essa sia il grado supremo di bellezza del vissuto, il grado più alto di gioia: come possiamo parlarne, cercandola a quel livello, se ciò che abbiamo sempre sperimentato è solo un barlume perfino lontano da quella che – tutti ne sono certi – sia possibile trovare, dal momento che tutti si mettono in moto per ottenerla, pur senza riuscirci mai? Non si parla della felicità con “f” minuscola, quella che può derivare, che so, dall’acquisto di un prodotto di cui avevamo bisogno o dall’incontro limitato nel tempo con la persona che amiamo.
No, qui si parla della Felicità, della suprema pienezza cui tutti tendiamo e che spinge ogni nostra ricerca.
Dove trovarla? Ecco la risposta di Agostino, in X, 22:
Vi ha una gioia che non è concessa agli empi, ma solo a coloro che Ti onorano con disinteresse [o Dio]: Tu sei la loro gioia: e quindi la vera felicità consiste nella gioia che si cerca in Te, di Te, per Te: questa sola e non altre. Chi pensa che esista un’altra forma di felicità, corre dietro ad altra gioia, ma non a quella vera.
E questa è esperienza di tutti, che non necessita nemmeno di ulteriore persuasione. La Felicità (si noti la maiuscola) è Dio. Se tu che stai leggendo preferisci o non te la senti di credere in un Dio personale, puoi pensare al divino, a quel luogo o a quella condizione di unione piena con il Tutto, di cui siamo sempre nostalgici. Tutti vi tendiamo, eppure… quando mai l’abbiamo conosciuta? È proprio ciò che si chiede la nostra guida al n. 26:
Per conoscerti, dove ti ho trovato? Prima che ti conoscessi, certo Tu non eri ancora nella mia memoria. Dove dunque ti ho trovato, quando ti conobbi, se non in Te, sopra me? Non vi è spazio né luogo: ci scostiamo, ci riavviciniamo a Te, ma non vi sono distanze. O Verità, Tu dunque sovrasti, a tutti, anche a quelli che ti interrogano, e rispondi a tutti a seconda delle domande: rispondi chiaro, ma non tutti ascoltano chiaro. Ti consultano su quello che vogliono, se non sempre ascoltano da Te ciò che vogliono. Il miglior tuo servo è colui che non tanto cerca di udire da Te ciò che egli vorrebbe, quanto di volere ciò che ha sentito da Te.
Chiama Verità la Felicità, Agostino, perché ogni felicità porta con sé un grado di verità, che non è altro che una condizione esistenziale senza filtri, senza nascondimenti: se la felicità è in qualche grado verità, la Felicità (torna la maiuscola) è Verità, al grado massimo.
La risposta di Agostino è sorprendente: la Felicità è sopra di noi, perciò al di fuori della nostra esistenza, in un luogo o, se vogliamo, in un tempo che ci precede, e che, pure, è al di fuori dello spazio e soprattutto al di fuori del tempo: non ci sono distanze a separarcene, né spaziali né temporali, segno che il nostro essere non si limita allo spazio e al tempo.
Infine, ecco la chiosa finale del Vescovo di Ippona, resa ancor più famosa dal Petrarca che la riprese nelle sue peregrinazioni a Monte Ventoso:
Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ecco, Tu eri dentro me, io stavo al di fuori: e qui ti cercavo, e deforme quale ero, mi buttavo su queste cose belle che Tu hai creato. Tu eri meco, ed io non ero teco, tenuto lontano da Te proprio da quelle creature che non esisterebbero se non fossero in Te.
La meditazione ci aiuta a concentrarci proprio su ciò che è dentro di noi e non su ciò che è fuori, seppur bello. La meditazione ci conduce alle soglie della bellezza tanto antica e tanto nuova, perché fuori del tempo.
Attraverso la memoria, siamo risaliti dalla materialità del tempo che viviamo e dello spazio che abitiamo al non-tempo e al non-luogo della Verità, dove risiede la Felicità somma.
Giunti a questo punto sorge spontanea in me una domanda: come mai arriviamo al punto di non accorgerci più che siamo abitati da questa bellezza, e che la Felicità è a portata di mano? Cosa ci impedisce di vedere e distoglie in continuazione il nostro sguardo… e il nostro orecchio dall’appello perpetuo che giunge dal divino?