
Terminiamo la riflessione sul mito della caverna di Platone, contenuto al libro VII della Repubblica (la mia è l’edizione Oscar Mondadori, 1990). Qui arriviamo al punto cui voglio giungere, e sottolinearlo per bene. Perché non si tratta di una questione di conoscenza, lo dico subito.
Il mito della caverna di Platone si occupa di ben altro che la conoscenza.
L’incatenato nella caverna è uscito alla luce del sole, dicevamo, e non riesce a distinguere nulla. “Per contemplare quelle realtà superiori dovrebbe abituarsi, io credo. E innanzi tutto vedrebbe con la massima facilità le ombre, poi le figure umane e tutte le altre riflesse nell’acqua, e da ultimo le potrebbe vedere come sono in realtà. Poi sarebbe capace di guardare le costellazioni e il cielo stesso di notte, alla luce delle stelle e della luna, anziché di giorno quando sfolgora il sole. […] Infine, io credo, contemplerebbe il sole, non la sua immagine riflessa nell’acqua o in qualche altra superficie, ma nella sua realtà e così com’è, nella sua propria sede. […] E poi si metterebbe a riflettere che è il sole a portare le stagioni e gli anni, a governare tutti i fenomeni del mondo visibile, e che insomma in qualche misura esso è la vera causa di ciò che i prigionieri vedevano”.
Ed ecco il punto di svolta. “E poi che farà? Memore della sua antica dimora e della sapienza di laggiù e dei suoi vecchi compagni di prigionia, non credi che si riterrebbe fortunato per il mutamento della sua sorte, e proverebbe pietà per loro? […] Credi che egli proverebbe desiderio e invidia dei loro onori e del loro potere, oppure si troverebbe nella condizione dell’eroe omerico e vorrebbe ardentemente «lavorare come salariato al servizio di un povero contadino» e patire qualsiasi sofferenza, piuttosto che condividere le opinioni di costoro e vivere a modo loro? […] E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con quegli eterni prigionieri prima che i suoi occhi, ancora confusi, si fossero ripresi, e a riacquistare questa abitudine gli occorresse un certo tempo, non credi che sembrerebbe ridicolo, e si direbbe di lui che l’ascesa gli ha rovinato la vista e che non vale neppure la pena di affrontare la scalata?”
Già, questo è il punto. Chi cerca di indicare una realtà più vera e schietta di quella che viene accettata supinamente, rischia di essere ridicolizzato, e scambiato per stolto. Anche qualora si riconoscesse che dice qualcosa di vero, la sua verità non verrebbe ritenuta degna di essere affrontata, dal momento che tutti hanno invece a che fare con le ombre, e sarebbe ritenuto una volta di più “stolto”.
Infine: “Paragona il mondo visibile alla dimora in prigione, e la fiamma che vi risplende al sole; e non deluderai la mia attesa considerando l’ascesa verso la contemplazione della realtà superiore come l’ascesa dell’anima verso il mondo intelligibile. […] Ma Dio solo sa se sia vera; in ogni caso io la penso così: l’idea del bene rappresenta il limite estremo e appena discernibile del mondo intelligibile.”
La conoscenza della realtà, nei limiti entro i quali è possibile conoscerla e farsene un’idea, è questione di esperienza personale. Ma questa esperienza personale, legata alla propria fatica per uscire dalla caverna, non può essere un movimento egoistico di conoscenza pura: il suo scopo non può che essere la pietà nei confronti degli altri. Chi si rende conto della realtà superiore – qualunque essa sia – ha il preciso compito di dover aiutare gli altri a rendersene conto, perché nella realtà sta il bene, non nella finzione.
E il mondo digitalizzato, mi chiederete voi? Vi rispondo con un’ulteriore domanda (nella convinzione che avere un dubbio sia più utile che ricevere una risposta): quale genere di motivazione spinge i grandi demiurgi della tecnologia a controllare l’informazione e a gestire il sapere tramite metodi digitali? Forse la voglia di condivisione e di libertà dei popoli?
Con questo interrogativo vi lascio e vi rimando al prossimo argomento, a inizio della prossima settimana.