Mi è stato regalato questo piccolo libro di estratti dalle lettere di Fernando Pessoa, incentrati in modo particolare sui suoi eteronimi.
Sono colpevole, lo ammetto, perché Pessoa è un autore che non conosco, ma questo opuscolo è sufficiente a infondermi la curiosità di partire per questa scoperta avventurosa. A mia discolpa, adduco la giustificazione che egli stesso narra in una lettera alla madre, Magdalena Nogueira, il 20 dicembre 1917:
una volta Bismarck, scendendo dal treno in non so quale stazione in Italia, diede un violento spintone a un gentiluomo italiano. Questi protestò, non sapendo d’altra parte chi fosse l’importuno viandante; e chiaramente protestò con il tono, naturale in queste circostanze, di chi esige soddisfazione. L’altro si limitò a guardarlo, e disse: “Sono il principe Bismarck”. L’italiano si inchinò, con l’aria soddisfatta, e si limitò a sua volta a dirgli: “Questa non è una giustificazione, ma per lo meno è una spiegazione”.
Ecco, mi trovo nella stessa condizione, perché davvero non c’è giustificazione nell’arrivare a 42 (quasi 43) anni avendo scritto parecchi romanzi fantastici, senza aver al contempo conosciuto e approfondito l’opera di questo straordinario personaggio.
Pessoa ebbe vari eteronimi, che non sono la stessa cosa che dire pseudonimi, perché in buona parte la sua non fu una scelta consapevole ma una necessità dettata dal carattere particolare sviluppato fin da piccolo, che lui stesso avrebbe definito isterico-nevrastenico, e per il quale avrebbe chiesto soccorso all’occultista francese Hector Durville, noto per la sua grande conoscenza del magnetismo animale (o mesmerismo; ricordate Edgar Allan Poe?), dal quale egli sperava di ottenere aiuto nel controllo e sviluppo delle proprie potenzialità. Alberto Caeiro, Álvaro de Campos, Ricardo Reis e Bernardo Soares furono i principali e a ognuno di questi autori è riconducibile una produzione poetica e prosastica ben precisa. Non chiamatela schizofrenia, perché sareste fuori strada. È invece qualcosa che parecchi scrittori conoscono e che, talvolta, emerge in modi strani e particolari. Io stesso ho condotto per un periodo un eteronimo che si firmava come Faber Prolificus e che conduceva squisiti confronti filosofici con un amico e compagno di studi filosofici. Inoltre, un Elior Odentorth (curatore del romanzo dedicato a Geshwa Olers) e un Brithlow, parassita malvagio di Cesare Ombroso del mio Commento d’autore, non sono poi molto diversi e minacciano in ogni momento di tornare in superficie.
Mi piace condividere con voi quanto scrive Pessoa a Joaquim Pantoja, giornalista, circa l’arte:
Tutta l’arte si compone di emozioni intellettualizzate, o di pensieri diventati emozione. Se in essa sorge l’emozione, seppur grande, ma non accompagnata dal pensiero, o il pensiero, seppur forte, ma non accompagnato dall’emozione, essa fallisce la sua funzione artistica; potrà essere pensiero – arte non lo è di certo. […] Tutti sentono. Tutti pensano. Però non tutti sentono con il pensiero o pensano con l’emozione. Per questo le persone son molte e gli artisti sono pochi.
Infine, ecco parole che davvero bene dicono ciò cui anela un’anima che scrive. Tratte dalla lettera firmata Álvaro de Campos, del 17 settembre 1926:
Ho il desiderio di essere di tutti i tempi, di tutti gli spazi, di tutte le anime, di tutte le emozioni e di tutte le comprensioni. Anche se tutto è niente per l’anima che non spidocchia la logica e non lima le unghie all’estetica. Non potendo essere la stessa forza universale che avvolge e penetra la rotazione degli esseri, voglio per lo meno essere una sua coscienza udibile, un bagliore momentaneo nell’urto notturno delle cose. Il resto è delirio e marciume.
Grazie a chi mi ha regalato questo librettino, aprendo una strada nelle mie abitudini letterarie (finalmente redenta da tanta ignoranza) che saprà essere proficua.