…si rischia che ci si debba lavare le mani, prima o poi.
Mi riferisco a Vanni Santoni, uno scrittore “impegnato”, come lui stesso si definisce, che ha deciso di pubblicare una non-trilogia (lui preferisce chiamarla “narrazione molto ampia”, che, guarda un po’, sarà divisa in tre volumi), garantendo però che non c’è nessun cambio nel suo cammino impegnato, solo “sperimentazione”. “Mentre sto scrivendo questo romanzo fantastico, ne sto infatti scrivendo anche altri due di ambientazione contemporanea (e certamente ‘impegnati’)” (riporto dall’intervista pubblicata su Affari Italiani”.
La cosa mi indispettisce parecchio. Anzi, sinceramente incomincio a non poterne più del modo in cui viene trattato il mondo italiano degli scrittori fantastici. Non ce l’ho con Santoni, non lo conosco personalmente e ovviamente devo leggere il suo romanzo, perciò non ce l’ho nemmeno con il suo romanzo. Tra l’altro, a vederlo in fotografia mi sembra simpatico. Piuttosto, ce l’ho con il pensiero che diffonde, sia nell’intervista ad Affari Italiani sia nell’articolo che aveva pubblicato qualche tempo fa sul Corriere della Sera.
In modo particolare, nell’articolo sul Corriere si interrogava su quale possa essere:
“oggi il canone del fantastico italiano, e dove possa condurre.
Si potrebbe giocare a tracciarlo: partire dalla Commedia e dalla quinta novella della X giornata del Decameron (dove la magia è data per esistente e ha funzione narrativa) per passare da Orlando Furioso e Hypnerotomachia Poliphili, sfiorare i primi trascrittori di fiabe (nelle persone di Giovanni Francesco Straparola e Giambattista Basile), transitare attraverso la scapigliatura di Tarchetti, Boito e Gualdo e arrivare a un Novecento dove la quantità e qualità degli autori che si sono cimentati col genere non permetterebbero di definirlo trascurato: vengono in mente Calvino, Buzzati, Papini, Landolfi e ancora Savinio, Bontempelli, Tozzi, Manganelli, gli stessi Pirandello e Levi.”
Prosegue con altre argomentazioni:
“Tuttavia un canone si valuta anche dall’importanza che ha per chi pratica quel sentiero oggi, e tanto nei cattivi romanzi pseudotolkieniani quanto nel buon romanzo di Francesco Dimitri (o nella produzione di Francesco Barbi), di tutto questo c’è poco.”
Su Affari Italiani, invece, precisa che l’inizio è:
“ripartendo dalla solida tradizione fantastica che abbiamo in casa. Il filone fantastico in Italia parte dai classici, da Virgilio, Ovidio e Apuleio, passa dall’Inferno di Dante e dall’Orlando Furioso toccando lande curiose come quella dell’Hypnerotomachia Poliphili e poi, dopo una tappa attraverso le nostre fiabe, o ‘novelle’, arriva a Collodi, Papini, Buzzati, Landolfi, Calvino e Manganelli. Bisogna ripartire da questa genealogia, e però lo si deve fare tenendo conto del fatto che oggi, in epoca di crossmedialità, il fantastico è un genere tra i più ibridati: la sua forma odierna gli viene anche dal fumetto (penso, più che a lavori europei deliberatamente paratolkieniani come Leggende delle Contrade Dimenticate o Cronache della luna nera, allo Slaíne di Mills e Bisley, o ancora a opere giapponesi come Berserk di Kentaro Miura, Bastard!! di Kazushi Hagiwara e, in senso più ampio, a tutto il macrogenere shonen, al modo in cui ha fatto virare verso l’actionl’intero filone), dal cinema (guardo soprattutto ai fantasy anni ’80, come l’Excalibur di Boorman e il Conan di Milius, ma anche a anime come La principessa Mononoke di Miyazaki), TV (Game of Thrones, anyone?) e addirittura videogioco (la saga Ultima è una delle grandi narrazioni fantastiche del secolo scorso, ma si potrebbero citare anche Legend of Zelda e Final Fantasy), e di fronte a tutto ciò non si può far finta di essere ancora a fumare la pipa nella Contea (a maggior ragione se tali pipe sono già state fumate, e nel migliore dei modi). Solo se si ricomincerà a lavorare seriamente sul fantastico, case editrici e mondo culturale smetteranno di considerarlo una cosa ‘facile’, e torneranno a dargli la considerazione e la dignità che merita.”
Mi sorge spontanea una domanda:
– perché Santoni ignora del tutto il lavoro compiuto dal sottoscritto (e non solo!), volto a sottolineare come un fantasy italiano sia possibile, e che lo sia a partire dalla grande tradizione letteraria e leggendaria italiana? Non dovrebbe un autore impegnato sapere che le questioni che lui pone in questi giorni come se fossero la “novità” del fare oggi fantasy in Italia sono già state poste alcuni anni fa da un gruppo di scrittori, e che da allora si sta tentando di dare una risposta?
Una risposta ai suoi dubbi mi viene, ma temo sia troppo di parte: noi scrittori fantastici, che abbiamo già mosso i primi passi in questo lavoro di ricerca, siamo tutti piccoli pesciolini, poco significativi. Piccole case editrici, piccoli pubblici, niente giornali sui quali poter scrivere… insomma, un autore affermato e, soprattutto, impegnato non può certo abbassarsi a parlare di Valenza & Co., pubblicati da Taldeitali e da Editore Sconosciuto. Che senso avrebbe in un Paese in cui si viene considerati solo se si è famosi e ritenuti parte di una “intellighenzia”?
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