E se il protagonista è antipatico?

Una delle regole fondamentali della narrazione consiste nel far sì che il lettore si immedesimi con il protagonista. Anche con i suoi comprimari o con i personaggi secondari, se non con la storia tout court, ma soprattutto con il protagonista. In quanti modi, però, e a quale costo ci si può immedesimare con chi conduce i giochi?

Siamo abituati a pensare e ad aspettarci che il protagonista sarà in gamba, sarà simpatico, soprattutto crederà in valori positivi o condivisibili, che – in buona sostanza – sarà una persona che potremmo desiderare di essere per la durata del romanzo. Ne condivideremo le emozioni, i sentimenti, le aspettative, le difficoltà e i misteri cui andrà incontro, e più il protagonista sarà un “essere umano” reale, più il lettore non attenderà che di riaffacciarsi nel libro ed entrare nella storia.

E se il protagonista fosse antipatico, cosa accadrebbe? Se il nostro eroe (espressione che odio profondamente, ma qui calza a pennello) prendesse decisioni impopolari e avesse una sorte che lo favorisce – seppur per qualche misterioso motivo che facilmente potrebbe essere preso per un deus ex machina – in molte delle traversie che si trova ad affrontare, il lettore riuscirebbe ancora a entrare nei suoi panni o preferirebbe iniziare a prenderne le distanze?

In fin dei conti, sono convinto che un protagonista non debba starci per forza di cose simpatico. Quanti romanzi abbiamo letto, che hanno come personaggi principali uomini o donne malvagi, assassini, cinici, spietati, violenti, maleducati, sfigati, eppure li abbiamo letti dall’inizio alla fine senza mai staccare l’occhio dalla pagina? Siamo convinti che sia la simpatia e la possibilità d’empatia con il personaggio a rendercelo digeribile? E non possono esserci personaggi – addirittura protagonisti – indigeribili, ma che non molleremmo per nessuna ragione al mondo fino al termine del libro?

L’alchimia che lega il lettore a un romanzo è spesso imperscrutabile e ognuno reagisce in modo personale. Ma se penso ad alcuni protagonisti di romanzi che ho molto amato, non posso certo dire di essermi immedesimato nei loro panni, salvo essermene ritirato non appena vi fosse stato l’avviso di un’azione o una decisione che personalmente non avrei mai preso.

Penso a Frodo nei confronti della sua ultima sfida ovvero distruggere l’anello, penso a Marius nei confronti del povero Valjean morente (quanto l’ho odiato!), penso a Julien Sorel e alla sua cinica capacità di approfittare degli eventi, penso a Raskol’nikov e alla sua colpa. Penso, infine, a Geshwa Olers e alla sua apparente fortuna che lo salva in molte situazioni.

A diversi lettori, il protagonista di Storia di Geshwa Olers è risultato antipatico. Le motivazioni addotte sono, solitamente, le stesse: è un ragazzo che a volte si comporta in maniera eccessivamente infantile per l’età che ha, altre volte riesce a risolvere casi difficili con una facilità che ad altri manca, e in certe situazioni sembra che i cattivi lo evitino (anche se potrei giustificare Ges dicendo che il lettore – nei casi che additerebbe per convincermene – non abbia letto bene e colto fino in fondo la dinamica degli eventi). In poche parole, sono d’accordo anch’io: Geshwa Olers può risultare antipatico. Non solo, più avanza la storia e più si comporta in modo sempre meno coraggioso, sempre più spaventato, si chiude nel suo guscio. Come si può amare un simile protagonista? In fin dei conti, meglio lo sfigato ma simpatico Nargolìan, no?

Eppure, credo che l’antipatia del protagonista dipenda, in questo caso, proprio dalla sua capacità di incarnare situazioni profondamente umane. La vita non è logica, anzi, per alcuni è una tirata unica nel segno della fortuna mentre per altri è accanimento continuo. Per Geshwa Olers è entrambe le cose, se mi è permesso dirlo. In più, però, c’è anche la metanarrazione, ma quella arriva solo nel settimo volume.


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