Io stesso ho molto spesso confuso il concetto di capolavoro con quello di opera d’arte, ma a ben vedere non sono la stessa cosa. La riflessione su questa parola fin troppo abusata mi è nata mentre andavo al lavoro. Stavo ascoltando una delle due Serenate orchestrali di Brahms e mi sentivo invadere dall’emozione profondamente umana che è capace di infondere, tanto da sembrarmi quasi una riflessione sulla condizione umana.
Eppure – mi dicevo – si tratta solo di una… Serenata. Il termine dovrebbe evocare qualcosa di spensierato, qualcosa nato quasi per caso, in maniera occasionale, oppure motivato dall’amore per qualcuno. Ovvero la definizione per eccellenza di ciò che dovrebbe essere leggero, quasi superficiale. La realtà, però, è che sia l’una che l’altra serenata finisce per essere – come dicevo – una riflessione sulla condizione umana.
L’opera d’arte ha infatti a che fare con l’arte, mentre il capolavoro con il lavoro. Che non sembri un’affermazione tautologica, perché credo si debba sfrondare e separare il concetto di capolavoro da quello di arte. Può esserci capolavoro di un artista e può essere un’opera d’arte, ma non è detto che il capolavoro di un artigiano – di qualunque lavoro – o di un artista sia un’opera d’arte.
Capolavoro e opera d’arte sono parole certamente abusate, oggi. Il nostro è un periodo caratterizzato da una certa bulimia di iperboli, e siamo ricoperti di capolavori letterari, implicitamente considerati anche opere d’arte. Questa definizione giunge, tra l’altro, sempre molto presto, dimenticandosi che l’opera d’arte ha una parte intrinseca di tempo, di lungo tempo, direi, perché l’arte è quella che rimane nel tempo. Diciamo che se leggo Gente di Dublino oppure Un posto nel mondo, capisco subito da che parte si trova l’arte, anche se la definizione di capolavoro può essere più facilmente affibbiata al secondo titolo (che è di Fabio Volo). Assurdo? Forse non troppo, perché il primo titolo (che è di James Joyce) non costituisce l’apice dell’arte di Joyce, che è con ogni probabilità il difficilissimo Finnegans Wake, mentre Un posto nel mondo costituisce l’apice del lavoro (per nulla artistico) di Fabio Volo.