Il fantasy, il Kitsch e il Camp

unicornokitschPotrebbe suonare come il titolo di uno strano romanzo riguardante creature di un’altra dimensione, invece voglio parlare della dimensione nella quale si muove la nostra letteratura… pardon, narrativa fantasy.

A lungo mi sono mosso all’interno della congerie fantastica che, negli ultimi anni, è stata pubblicata con l’etichetta di fantasy, da autori italiani, da case editrici italiane. A lungo, inoltre, mi sono interrogato sulla possibilità di una etichettatura delle storie lette, non perché le etichette siano utili alla narrativa stessa, bensì perché possono aiutare a capirci qualcosa di più nel momento in cui ci si vuol riflettere sopra. Capita che in estate io abbia molto tempo per riflettere e chiarirmi finalmente le idee. Non sono comunque partito dal nulla, ma ho tratto lo spunto per questa antipatica riflessione dalla Storia della bruttezza di Umberto Eco (Bompiani 2007), egli stesso autore di romanzi spesso illeggibili ma grande comunicatore e attento “catalogatore”, dote che amo.

Il fantasy, dicevo. Sapete bene come dal 2007 a oggi mi sia spesso occupato del fantasy italiano, di come lo abbia approfondito e letto personalmente, forse tra i primi scrittori a fare un’operazione del genere, e di come abbia avuto modo di conoscerne diramazioni e variazioni, oltre che mode e brutture. A lungo ho sostenuto, contro chi pensava il contrario, che fantasy italiano esista e che abbia molte possibilità di creare qualcosa di originale e nuovo. Non starò qui a ripetermi circa gli autori che considero significativi (cioè non ripeterò i nomi di Zuddas, di Pederiali, di D’Andrea, di Davide, di Romagnoli, di Angelinelli, di De Mari  – ai quali aggiungo, dal momento che non faccio finta di essere modesto, il nome di Valenza – e sommerò, piuttosto, quello finora mai fatto di Cicolani), dei quali peraltro non tutto è salvabile, ma vorrei concentrarmi su ciò che di brutto c’è nella narrativa fantastica nostrana, evitando di fare nomi per non attirarmi ulteriori antipatie (pare che in questo sia un maestro, a voler ascoltare qualcuno). Il tutto considerando che devo ancora leggere un buon numero di scrittori che pubblicano da due o tre anni a questa parte e tra i quali, ne sono sicuro, ci sarà altro da poter salvare.

Nel corso delle mie letture, parallela all’idea che qualcosa di buono ci fosse, si è sviluppata sempre più la sensazione che buona parte di ciò che mi passava dinnanzi appartenesse ad altre categorie. Leggevo spesso stroncature sul web fatte da sedicenti appassionati del fantasy, ma che non aspettavano altro che un’occasione buona per stroncarlo, il fantasy, senza cercare gli aspetti salvabili e positivi. Non ho mai condiviso queste stroncature, soprattutto per un motivo: non avevano metodo. Per fare una buona recensione è necessaria una conoscenza del metodo della recensione che manca a buona parte dei recensori e, soprattutto, dei commentatori online. Quelle categorie possono essere identificate con tre parole: la spazzatura (tutto ciò che è stato pubblicato senza il minimo editing e senza l’ombra della minima scelta editoriale), il Kitsch e il Camp. Si potrebbe aggiungere anche un’altra categoria, ovvero quella di Midcult veicolata da Dwight MacDonald, ma il discorso si farebbe troppo ampio e sarei costretto a entrare nello specifico in un modo sconveniente. Perciò evito. Quanto al resto, cerco di spiegarmi.

Il Kitsch è qualcosa che mira a provocare un effetto passionale invece di consentire una contemplazione disinteressata; è quella pratica artistica che, per nobilitarsi e nobilitare l’acquirente, imita e cita l’arte dei musei. Soprattutto, però, Kitsch è l’opera che, per farsi giustificare la sua funzione stimolatrice di effetti, si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve. È una bugia relativa all’ “artisticità” di ciò che si produce e di come la si produce.

Il Camp, invece, è l’amore per l’eccentrico, per le cose-che-sono-come-non-sono. Il gusto camp è attratto dall’ambiguità sessuale. L’estrema manifestazione del gusto camp è l’espressione “è bello perché è orribile”. Il camp trasforma in oggetto di compiacimento estetico il brutto di ieri, in un gioco ambiguo in cui non è chiaro se il brutto venga redento come bello o il bello si riduca al brutto. A differenza del Kitsch, il Camp è del tutto involontario, nel senso che chi lo produce è convinto di fare davvero qualcosa all’altezza cui mira.

Non è detto che Kitsch e Camp non possano essere belli, perché il bello ha una forte componente soggettiva e, soprattutto, storica, così come non è detto che non possano un giorno essere considerati arte. Tuttavia, non posso non notare come tantissima della nostra narrativa fantastica ricada o nell’una o nell’altra categoria, segno della trasformazione, di un imbarbarimento del gusto collettivo, autori ed editori primi responsabili.

Per esempio, sono kitsch le molte opere fantasy che si ripropongono come modello l’opera di Tolkien. Mentre Tolkien fa parte dell’arte nel senso più alto, le molte opere che ne sono derivate rientrano nella categoria del Kitsch. Consapevoli di non poter riproporre il capolavoro di Tolkien, quegli autori si sono limitati a imitarlo modificando parti, personaggi e, soprattutto, svuotandolo della sua unicità. Con Tolkien lo sguardo arrivava in alto, verso ciò che si trova oltre le stelle o nascosto nella parte eterna di noi stessi, con i suoi imitatori arriva al massimo alla facciata che essi presentano, scoprendo presto che si tratta di una facciata da poter (e volere) dimenticare. Incapaci di raggiungere lo spessore, questi autori puntano sull’effetto: e allora vai di combattimenti, vai di grandi sentimenti, vai di scene pietistiche o truculente. Vai di magiiiiaaaa. Ovviamente, questi autori non vi diranno mai di voler fare arte, ma nel momento in cui arrivano le critiche, ecco alzarsi gli scudi della difesa a ogni costo, ecco partire gli strali delle controaccuse, ecco i guaiti più o meno privati nei forum fantastici (che ovviamente necessitano del supporto degli autori kitsch).

Sono Camp, per esempio, le opere fantasy (in numero relativamente minore) che si mostrano convintamente celtiche. Guardate un po’, qui c’è un romanzo che è proprio celtico, che ristabilisce la verità sui celti. Mi vengono in mente i brutti e noiosi romanzi della Bradley, Avalon e via dicendo. Così come penso a vari romanzi italiani che pensano di rimettere al giusto posto il paganesimo nei confronti del cristianesimo tanto odiato perché prevaricatore. In realtà, il Camp è quanto di peggio possa esistere. Il Camp è il metodo migliore per rivendicare qualcosa che altrimenti si farebbe fatica a rivendicare con le normali argomentazioni logiche (ma solo perché quegli autori ne sono sprovvisti, di argomentazioni logiche, non perché sia impossibile utilizzare delle argomentazioni logiche per rivendicare in modo più normale ciò che loro interessa). Camp è, per fare un altro esempio, l’amore per i vampiri e per i lupi mannari, quando i primi andrebbero invece trafitti con un paletto e i secondi uccisi con una bella pallottola d’argento, sempre, in ogni caso. Camp è l’amore per uno zombie: dài che ce la fai, dai che la prossima volta riuscirò finalmente a baciare anche un po’ di carne viva.

Ho fatto solo alcuni esempi, gli altri potete aggiungerli voi, non è difficile. Di certo rimane ancora fuori una larghissima produzione di romanzi scritti sull’onda della moda che arriva da fuori. Si tratta solo di paccottiglia per una vuota cultura di massa, per vendere la quale è importante considerare il lettore (che quasi sempre ci casca) mucca da allevamento. Fate attenzione, però, perché dopo il vostro latte, mangeranno le vostre carni.


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