Ridley Scott deve avere le idee piuttosto confuse, ultimamente. E non mi riferisco di certo alla trama o alla sceneggiatura del suo ultimo film, Exodus – Dei e re. La storia è quella dell’Esodo, di come tutto è cominciato, Mosè che viene scelto da Dio, le piaghe d’Egitto, l’apertura del Mar Rosso e l’arrivo nella Terra Promessa. Seppur rimaneggiata, e in svariati punti, arbitrariamente rimaneggiata, la storia è comunque non problematica.
Problematico è l’approccio che Scott ha scelto per la narrazione, perché è un approccio che trasmette una sola idea: che per tutto il film non vi sia reale approccio sistematico. A parte uno, che può tradursi in questi termini: la Religione provoca integralismo. Vediamo di affrontare i singoli punti.
Visivamente è un film vincente. Le scene sono straordinarie e si può dire trattarsi del più bell’antico Egitto cinematografico di sempre (anche se è storicamente sbagliato, ma vabbe’, è l’abitudine del regista, quella di fare a pugni con la storia). La ricostruzione è davvero grandiosa e magnifica e tutto l’apparato che viene messo in scena è degno delle intenzioni di George Méliès. Ma tutto si ferma lì.
I problemi iniziano con la volontà (apparente) di voler fornire un aspetto “naturalista” alle piaghe d’Egitto. Il suo tentativo si inserisce nel filone dei malpancisti dei miracoli, di cui sono pieni gli ultimi decenni di pseudo-archeologia della Bibbia, secondo i quali si deve a tutti i costi trovare una lettura naturalista dei miracoli narrati nella Bibbia (e nel Vangelo, aggiungo io). Ragazzi, i testi sacri non vogliono raccontare fatti naturali, ma storie che mettono in scena il rapporto tra gli uomini e Dio. Eppure, se l’idea di partenza per la messinscena delle piaghe è affascinante (a un bel punto, i coccodrilli del Nilo si azzannano tra di loro e via a catena, scatenano una ribellione di animale feroce contro animale feroce, riempiendo il fiume di sangue; da qui tutte le altre conseguenze, moria dei pesci, le rane si riproducono ma poi muoiono, quindi mosche, tafani e insetti parassitari, perciò le malattie, quindi… evvia così, nella convinzione che vi sia una logica naturale dietro la spiegazione delle piaghe d’Egitto), Scott si scontra con se stesso nel momento in cui fa entrare in scena l’esperto egiziano, che con linguaggio anche molto moderno (e non è l’unico, a utilizzare un linguaggio fin troppo moderno) fa del suo meglio per dare questa spiegazione naturale che appare subito risibile. Ottiene un effetto comico che porta gli spettatori a ridere e a dire: “ma quanto è scemo questo qua”. Riassumo: prima Ridley Scott mostra in modo naturalistico le piaghe d’Egitto (ma anche l’apertura del Mar Rosso, eh, e perfino la scrittura dei Dieci Comandamenti, giusto per non farsi mancare nulla), poi mette in discussione quella modalità facendosi ridere dietro attraverso il numero comico dell’egiziano che tenta di spiegare allo stesso modo.
La verve comica di Scott doveva essere fenomenale, all’epoca in cui ha girato il film. Ne fa le spese Ramses. Ora, Ramses il Grande, considerato uno dei più grandi faraoni d’Egitto, fa la figura dell’idiota. Non è altro che un bamboccio, incapace di mettere due pensieri logici uno dietro l’altro. Sembra perfino il figlio ebete d’Egitto, soprattutto nei momenti in cui suo padre ancora vivo e Mosé, il Generale d’Egitto, si scambiano sguardi rassegnati dai quali emerge una sola possibile lettura, ovvero:
Il padre di Ramses: ma che devo fare con ‘sto qua?
Mosè: nulla, non ti preoccupare, racconto a tutti che lui è stato in gamba, ma in realtà l’ho salvato io.
Ramses: ci fossi stato io al tuo posto, Mosè, ti avrei salvato io.
Il padre di Ramses e Mosè, in coro: ceeeeerto!
Credetemi, non esagero.
La cosa peggiore di tutto il film, però, è l’unica idea valida (per valida intendo dichiaratamente pensata da Ridley Scott) di tutto il film. Mosè è un invasato, vede Dio come un bambino capriccioso e vendicativo (che, per carità, richiama alla lontana tratti con i quali Dio è descritto nel Vecchio Testamento, ma qui siamo alla caricatura) ma nessun altro lo vede, tanto che quando Aronne lo spia di nascosto, vede Mosè che parla con un sasso (della serie, che forse ha preso una botta in testa? Ah, sì, in effetti l’ha presa, perché all’inizio di tutto, prima della visione del roveto ardente, Mosè è vittima di una slavina e viene ripetutamente colpito in testa); inoltre, Dio è disposto a tutto pur di ottenere ciò che vuole da Ramses.
Ora, cercate di capirmi, è vero che la narrazione biblica mostra un Dio che non esita a usare la forza bruta per convincere Faraone a lasciar andare gli Ebrei, ma nella narrazione dell’AT tutto è interpretato già sapendo che Israele è il popolo eletto e che pertanto Dio non lo avrebbe abbandonato. Nel film, invece, il peso emotivo è praticamente assente nell’arco di quasi tutta la proiezione (altro grosso problema della pellicola) tranne che in un punto, cioè quando muoiono i primogeniti d’Egitto. È una scena che mette i brividi per quanto è fatta bene e per quanto riesce a rendere l’orrore. Ma il punto è proprio qua: subito dopo, Ramses lascia andare gli Ebrei, non senza aver prima chiesto a Mosè: “ma che razza di fanatici credono in un Dio che uccide i bambini?”
Vi fa venire in mente nulla? A me ha fatto pensare agli integralisti islamici, di quelli che sgozzano le persone e uccidono per l’appunto i bambini, usandoli magari come scudo. Il problema di questa versione è proprio qui: Scott aveva una sola idea chiara in mezzo a molte confuse e contraddittorie, cioè che la religione – in modo particolare quella nell’unico dio – è fonte di integralismo. Anzi, è integralismo essa stessa.