Poche sono le volte in cui una riflessione davvero utile giunge alla superficie della coscienza, e ieri ne ho avuta una del genere (o de-genere, scegliete voi). Ve la propongo per come l’ho scritta sul quaderno. E poi ditemi che non ho ragione!
Capire. C’è l’obbligo di capire quale sia la strada più adatta a uno scrittore (nella fattispecie, il sottoscritto). Mi vado interrogando su cosa stia sbagliando, con il pensiero che io “voglio” tra i miei pensieri il pubblico dei lettori, senza per questo fare ciò che i lettori si aspettano, senza dovermi prostituire a una idea di “massa”.
L’interesse verso il pubblico dei lettori va nel senso che ciò che scrivo vuole parlare della vita di tutti, ma non credo ancora di farlo in senso largo e pieno. Mi ci sto avvicinando, ma non ci sono ancora. Cos’è che sbaglio? Al di là della Storia di Geshwa Olers, altri romanzi non hanno ancora raggiunto il punto. Si può scrivere secondo la propria autorialità, certo, ma perché non scrivere cogliendo anche la vita dei lettori, in pieno, come per esempio faceva Hitchcock quando produceva i suoi film? Quando King ha pubblicato il suo primo grande successo, Carrie, che cosa ha fatto? Ha preso una ragazza adolescente, l’ha inserita nella vita quotidiana della nostra società dell’epoca (Anni Settanta), dove riecheggiavano ancora le rivendicazioni femministe e la rivoluzione sessuale, e attraverso l’horror ha messo a nudo le contraddizioni di una società in trasformazione. Ha parlato a tutti. Quando Spielberg ha dato vita al suo primo film per il cinema, Lo Squalo, che cosa ha fatto? Ha preso un mostro marino, lo ha messo nel mare di una ridente località balneare, segno evidente della ricchezza e serenità vacanziera raggiunta da una società opulenta, e poi ha portato tutti noi a confrontarci con gli incubi derivanti da quel mostro, incubi vissuti attraverso gli occhi di un uomo che ha paura dell’acqua. Anche in questo caso, il film ha parlato a tutti. Questa è la via da seguire, come fanno tutti i grandi autori che sono capaci di parlare a tutti senza voler rimanere in un’élite che sa di snob.
Cosa facciamo, invece, noi Italiani? Tranne pochi casi che hanno seguito esattamente quella via appena indicata (vedi un Sergio Leone, vedi un Salvatores, vedi un Ammaniti), noi Italiani mostriamo sempre una irriducibile antipatia per le sintesi fruttuose, e ci manteniamo o in un’idea di cultura alta, separata dalla vita delle persone (Calvino, Eco, Fellini), o in un’area di mercato nella quale è nostro interesse vendere solo l’emozione-reazione separata dai grandi temi (Vanzina, Volo, Littizzetto). I nomi indicati tra parentesi sono solo dimostrativi, ma potete divertirvi anche voi a riempire le fila: sono centinaia!
La mia scrittura si va sempre più chiarendo come scrittura di emozioni, talvolta di situazioni, talaltra di personaggi, ma sempre di emozioni e di storie “metafisiche”, che puntino a una visione generale della vita, dove la vita viene letta attraverso situazioni straordinarie e simboliche che i personaggi si trovano ad affrontare.
Non sono uno scrittore per le scene di vita quotidiana, sebbene talvolta mi ci abbia provato. La vita quotidiana nelle mie storie porta verso il fatto eccezionale, verso il fatto che eleva o sprofonda nella dimensione metafisica.
La morte è certamente il punto fondante di tutto, ma d’altronde c’è chi ha detto che ogni romanzo parla, in realtà, della morte. Tuttavia, essa è il fulcro di ogni mia storia, in un modo o nell’altro. Credo che attraverso la morte si possa meglio parlare della vita, mio vero obiettivo.
Alcune storie cadono dalle mie priorità, come se non potessi trovare un posticino loro adatto e forse questo accade perché non vogliono rientrare in queste categorie descritte, ma “pretendono” riferirsi ad altro.