Prendo spunto da P. P. Pasolini, Empirismo eretico, per schizzare alcune note circa il discorso indiretto libero.
1) C’è un modo infinitivale, incoativo ed epico.
Mangiare male, dormire poco e ridere quando non se ne può fare a meno; poi piangere nel tempo che rimane: questo è il destino che attende ogni quarantenne, quando è sul punto di entrare nella sua seconda vita.
È un infinito che sottolinea le azioni ripetute da un gruppo o da una persona, nelle quali gruppi interi o molti singoli (composti da lettori) possono riconoscersi. Pasolini riportava un esempio da Lorenzo Da Ponte, Don Giovanni:
Notte e giorno faticar per chi nulla sa gradir, piova e vento sopportar, mangiar mal e mal dormir…
2) Poi c’è l’imperfetto.
È tipico del narratore che voglia rendersi narrante attraverso il suo personaggio, rievocandone condizioni e situazioni, per ricreare un mondo nel quale il lettore conosce il narratore attraverso la voce del personaggio. C’è una certa distanza tra il lettore e il narratore, perché in mezzo si trova il personaggio. Ma il narrato risulta anche più arieggiato.
E continuava a camminare sempre sullo stesso percorso, perché pensava che così avrebbe scoperto, prima o poi, cosa non gli permetteva di essere se stesso. C’era una luce in quella strada che di notte brillava come di giorno, una luce differente da tutte le altre, e forse era proprio questa atmosfera eterna a far sì che egli fosse assente. Carlo non viveva mai nello stesso tempo dei presenti.
Una forma utilizzata molto fino a qualche tempo fa e ancora oggi, soprattutto dagli scrittori considerati “letterari”. Oggi si preferisce una terza forma.
3) Il passato remoto.
Il passato remoto, invece, accorcia del tutto le distanze, diventa espressivo e rende espressiva la narrazione, e il narratore è tutto nel personaggio. Il narratore È il personaggio e il lettore conoscerà tutto attraverso i suoi occhi.
4) In generale ci si può porre una domanda: che rapporto c’è tra il narratore e il personaggio, quale il grado di immedesimazione? Il narratore ne condivide solo i pensieri, o anche le parole?
Fateci caso: molto spesso i personaggi parlano tutti lo stesso linguaggio del narratore. La qual cosa potrebbe andar bene se vi fosse un narratore conclamato all’interno del romanzo. In questo caso il narratore risulterebbe comunque come uno che esprime un giudizio di base sui personaggi di cui racconta, perché ogni personaggio ha la sua cultura, la sua estrazione sociale, le sue esperienze, la sua lingua. Il che vuol dire che ogni personaggio parlerà in modo diverso: se il narratore riporta i suoi dialoghi o i suoi pensieri adattandoli al suo proprio modo, sta esprimendo un giudizio sul personaggio, consistente nel fatto che sente il bisogno di variare il suo linguaggio per adattarlo a quello suo proprio. Il che potrebbe andar bene, ma non sempre. Ma se il narratore scompare e le azioni e la storia si sviluppano solo attraverso le azioni dei protagonisti, come accade quasi sempre al giorno d’oggi, ogni personaggio dovrà avere la sua lingua, le sue parole, i suoi modi di dire, legati soprattutto all’estrazione sociale cui appartiene. In caso contrario si commette un errore molto grave, e il primo risultato per il lettore sarà che egli non riuscirà a immedesimarsi fino in fondo nella storia. Oltre a essere un errore narrativo, è anche un giudizio – forse il più pesante – che può essere dato sui propri personaggi: pari a quello che un dio cattivo può infliggere alle sue povere creature.
Ci sono due livelli di immedesimazione: nei pensieri e nelle parole. Già è qualcosa che il personaggio pensi a suo modo, ma se poi parla in modo differente, non adeguato, il gioco della sospensione dell’incredulità (su cui si basa tutta la scrittura) salta subito. Perché l’immedesimazione vada a segno deve operare anche a livello di parole. È una cosa risaputa fin dai tempi di Dante.
Ricordatevi: ogni personaggio parla la sua lingua. È forse uno degli aspetti più difficili della scrittura. D’altronde, qui si vede il bravo scrittore.
Un saluto, Fabri.
Ciao Chagall, anche a te 🙂