La mia lettura di James Joyce va a ritroso. Dopo l’Ulisse è stata la volta di Ritratto dell’artista da giovane, e ora di Gente di Dublino.
Quel che mi ha colpito di più, tra le altre cose, è la capacità dell’autore di cogliere sprazzi della realtà con frasi semplicissime, dote d’altronde già riscontrata (e che forse è proprio ciò che fa la differenza con gli autori normali) in gente come Carver, Wolff o la Munro. Quando scrive, per esempio:
Indugiai davanti al chiosco, sebbene sapessi che rimanere era inutile, per fare sembrare più autentico il mio interesse alla sua merce (Arabia).
O ancora, il finale di Un incontro:
“Murphy!” La mia voce aveva un accento di coraggio forzato e io mi vergognavo dello stratagemma meschino. Dovetti chiamare di nuovo prima che Mahony mi vedesse e gridasse in risposta. Come mi batteva il cuore mentre veniva correndo per il campo verso di me! Correva come per portarmi aiuto. E io mi pentivo; perché in cuor mio l’avevo sempre disprezzato un poco.
O in una descrizione contenuta in Le sorelle:
Quella sera la zia mi portò con sé in visita alla casa del lutto. Era dopo il tramonto; ma i vetri delle finestre nelle case esposte a occidente riflettevano l’oro fulvo di un grande banco di nubi.
Momenti, brevi frasi capaci di ridonare il senso preciso di attimi vissuti da tutti, eppure resi in modo tanto straordinario e diretto. Questa è la capacità più apprezzabile di uno scrittore.