Sono luddista?

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Anche Beppe Severgnini è uno sperimentatore. Ama le nuove tecnologie e le utilizza in modo molto intelligente, soprattutto Twitter. Questo il suo indirizzo cinguettante: https://twitter.com/#!/beppesevergnini. Il suo ultimo esperimento riguarda proprio le nuove tecnologie e una prova di astinenza. Sette giorni senza internet, iPad, smartphone e menate varie, per vederne l’effetto. Lui riferisce (in questo bell’articolo: http://lettura.corriere.it/sette-giorni-fuori-rete/) di una liberazione della mente e di una ritornata capacità di concentrarsi maggiormente.

Condivido le sue conclusioni pur senza aver provato a vivere la stessa cosa. Forse, il punto è proprio quello. Ormai sembra molto difficile riuscire a fare senza quella tecnologia. Lo ammetto, mi sento un poco luddista. I luddisti sono quelli che combattono la diffusione della tecnologia (inizialmente delle macchine, nel XIX secolo, ma con il neoluddismo di questi anni la diffusione di internet), per salvaguardare la libertà dell’uomo e la sua capacità creativa. Detto in soldoni.

Il mio luddismo non è totale, ed è molto nostalgico. Si nutre soprattutto di ricordi: proprio in questi giorni mi sono ritrovato a pensare “Ah, quanto si stava bene quando non c’era l’assillo di dover controllare internet e Facebook dieci volte al giorno”, oppure “Ah quant’era bello quando scrivevo con la macchina da scrivere”. O ancora (contraddittorietà di un luddista da poco): “Cavolo, quando i computer erano lenti e ci potevi fare davvero poche cose… bei tempi, quelli!”

Ieri mi sono ritrovato a commentare ogni canzone e fatto del Festival di Sanremo su Facebook tramite lo smartphone che, ovviamente, permette di essere collegato con chi si vuole. La cosa in sé è stata anche divertente, ma perché è avvenuto una sola volta. Anche adesso che scrivo questo post, mi sono trovato a consultare Wikipedia per ben due volte. Se avessi dovuto cercare il significato preciso del termine luddista sull’enciclopedia, sarei dovuto scendere al piano di sotto, aprire la vetrina, liberare il passaggio per arrivare al volumone giusto della Treccani (i miei libri conoscono la seconda e la terza fila, e anche il soppalco) e sfogliare. Un’attività che avrei apprezzato certamente di più, perché sentire la carta che scivola sotto le dita e percepire il profumo della carta patinata mi inebria. Ma ci avrei messo almeno dieci minuti in più.

Quando ho scritto i primi cinque volumi di Storia di Geshwa Olers, ho preferito utilizzare la macchina da scrivere anziché il computer. C’è stato come un corto circuito mentale (o, se volete, un’equazione molto naturale) secondo il quale per scrivere un romanzo per me importante era necessaria una tecnica antica: il computer l’ho evitato perché essendo molto veloce a dattilografare, non avrei avuto il tempo per pensare a fondo quel che scrivevo, mentre la macchina da scrivere sarebbe stata perfino troppo lenta, ma salutare. Adesso non ho più questo problema, perché ho trovato il giusto mezzo e mi sono abituato alla velocità del computer, però ammetto che rimpiango quei tempi. Se c’è una cosa giusta che Celentano ha sottolineato al Festival di Sanremo (una su tutte le altre, per lo più sbagliate o sguaiate), faceva riferimento alla velocità. C’è gente che ha il desiderio di andare lentamente. Io sono tra questi.

Di qui una specie di virus tecnologico che ormai mi ha preso: non riesco più ad andar lento, sono dipendente delle nuove tecnologie a causa del loro indubbio vantaggio. Leggo libri elettronici perché mi stanno permettendo di risparmiare svariate migliaia di euro. Scrivo con il computer perché mi permette di avere un risultato finale già sistemato. Comunico i miei pensieri sul blog perché così posso condividere idee. Le segnalo su Facebook perché così queste idee possono anche ricevere un feedback che ormai pure i normali blog faticano a trovare (siamo al 2.0, no?). Sperimento nuove forme di pubblicazione, come Amazon, per capire fino a che punto ci si può spingere e quali possano essere i vantaggi. Il prossimo esperimento sarà ancora più contraddittorio con questo mio emergente senso luddista: scrivere un racconto soltanto dettandolo al computer. In questo modo sarò costretto ancora una volta a modificare il modo di pormi di fronte alla creazione narrativa. La tecnologia ormai lo permette.

La tecnologia permette ormai di fare molte cose. Alcune sono del tutto positive, altre sono facilitanti, molte sono tutto sommato superflue ma divertenti, tutte sono condizionanti. A tal punto da non potermene più liberare. Severgnini, ciò che hai fatto per una settimana vorrei poterlo fare per un anno intero, ma sono un piccolo scrittore, poco conosciuto e che ha necessità di veicolare i propri contenuti, se vuole mantenersi in vita nella schiera degli scrittori. Per lo meno fino a quando non mi capiterà quel colpo di fortuna che eliminerà del tutto la necessità di aprirsi un varco e mantenerlo aperto.

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